giovedì 27 novembre 2014

Ospitando Marco De Franchi


Un regalo speciale, un lavoro che deve ancora vedere la "luce", un nuovo esperimento di Marco De Franchi, un capitolo di un romanzo in scrittura, un inedito non definitivo, in cui il testo finale potrebbe anche essere molto diverso.





 “Adele”

1

Come ogni mattina, dopo la colazione e una doccia bollente, interminabile, quasi dolorosa, Adele si contemplava nel grande specchio del bagno, e lo faceva a lungo, senza pudore, indagando con attenzione ogni profilo del suo aspetto, ogni piega del suo corpo nudo, dalla radice dei capelli al delta del sesso. Non lo faceva per narcisismo né per la ragione contraria. Non cercava difetti e non si compiaceva per l’assenza di essi. La natura della sua investigazione mattutina – una specie di rito prima di uscire cui ormai non sapeva rinunciare – era di altro genere. Adele si guardava e si interrogava, ogni volta, immancabilmente, su quello che gli altri potessero pensare di lei. Chi vedessero davvero.
      Adele non era particolarmente bella, ma non si poteva dire fosse brutta. Aveva la fronte alta, incorniciata da capelli biondo cenere un po’ rattristati da una pettinatura timida e una coda di cavallo sciatta. Occhi chiari, forse troppo. Sfumavano da un verde acquamarina, intorno alla pupilla, fino a un periferico grigio opaco. Il naso era dritto e pronunciato e terminava in una punta a forma di cuore. Da bambina era delizioso, adesso, a quarant’anni suonati, sembrava troppo importante a causa dei contorni del suo viso, non particolarmente marcati. La pelle chiara, poi, contribuiva a rendere del suo volto un’idea come di indefinitezza. La bocca era certamente la parte più bella. Era carnosa e il labbro superiore sporgeva leggermente rispetto a quello inferiore, tanto da renderne l’aspetto quasi irresistibile. Non l’aveva detto lei. C’era stato qualcuno, una volta. Uomini. Ma con loro, francamente, era tutto sempre troppo confuso e incerto.
      La domanda che però Adele si faceva, davanti alla sua immagine, era sempre la stessa. Si vede? Si vede la mia natura? Dal colore della mia pelle, dalle venature dei miei occhi, dal contorno del mio viso. Si vede cosa c’è dietro? Si scorge chi e cosa sono realmente?
      Alle sue spalle, la porta si apriva sul lungo corridoio che procedeva dritto e deserto per poi girare verso le scale che portavano al piano inferiore. La luce del primo mattino metteva in fuga le ultime ombre e i reduci chiaroscuri. La forma delle cose emergeva a fatica dalla notte trascorsa, arrampicandosi sulle scale dietro di lei.
      Una testa fece improvviso capolino dietro lo stipite. La vide attraverso lo specchio. La testa si nascose. Cu-cù. Adele non vi badò. Tornò a fissare la propria immagine. I seni piccoli ma pieni. Le spalle forse un po’ troppo magre. Non voleva il giudizio degli altri. Voleva pensare di piacere. Ma non voleva si scorgesse chi fosse veramente.
Dietro di lei il corridoio continuava ad apparire vuoto. Si sentì inquieta. Chiuse gli occhi. Controllò la porta e la maniglia che aveva dentro la mente. Una grande porta scura. Una bella maniglia d’ottone lucido. Era chiusa. Sicuramente.  L’aveva lasciata così, l’ultima volta che l’aveva immaginata. Non era una cosa che potesse dimenticare. Tornò ad aprire gli occhi e scrutò ancora l’ambiente alle sue spalle. Nulla. Nessun movimento.
      Nessuno, infatti, avrebbe dovuto esserci alle sue spalle.
      Adele Halbritter viveva da sola in una vecchia palazzina di tre piani, tra il Gianicolo e Trastevere, nella pancia stessa di quella Roma in cui palazzi e luoghi non sono mai estranei a inquietanti presenze.
     

2

La notò subito, non appena fuori di casa. Il sole piombava sulla via come se si fosse francamente stancato di restare inchiodato al cielo, i suoi raggi rendevano le facciate dei palazzi specchi incandescenti. La vecchia si riparava nell’esile rettifilo d’ombra che correva lungo palazzo Corsini, proprio di fronte a casa sua. Evidentemente la luce le dava fastidio. Si copriva in parte il volto raggrinzito con un foulard nero che doveva avere per lo meno cent’anni. E non c’era dubbio che stesse guardando nella sua direzione. Adele finse di non averla vista, si assicurò che il portone di casa fosse serrato, e imboccò con decisione via della Lungara in direzione della porta Settimiana. Il tragitto in programma era lo stesso di ogni giorno. Non c’era senso a cambiare. Prima si sarebbe fermata all’antica chiesetta di Santa Dorotea, dove avrebbe sostato non più di dieci minuti, il tempo di un Padrenostro, più per abitudine che per sincera devozione. Non avrebbe mancato di passare, poi, sotto la finestra della Fornaretta, dove Adele avrebbe speso un pensiero magico, come sempre. Dicevano che là avesse abitato tale Margherita Luti, mitica amante del Raffaello quando questi dipingeva i suoi affreschi nei palazzi romani. Adele non sapeva quanto quella storia fosse autentica, ma le piaceva pensare di vivere a cento metri dal luogo dove il grande pittore del ‘500 aveva amoreggiato con quell’illustre sconosciuta. Quindi, rianimato lo spirito prima ancora della carne – che fosse spirito sacro o profano poco le importava - si sarebbe finalmente immersa nel rassicurante caos di Trastevere, dove si sarebbe fermata alle botteghe che conosceva per fare un po’ di spesa. Il programma di una bella camminata che le avrebbe preso la maggior parte della mattinata.
      Perse quasi subito di vista la vecchia che la seguiva. Anche se la intravide di nuovo arrivata a Piazza Trilussa, lambita dal traffico del Lungotevere che scorreva impazzito, come al solito. In parte nascosta da un gruppo di turisti colorati e in infradito, la vecchia le sembrò in difficoltà di fronte al flusso caotico delle auto, dei bus e dei milioni di scooter che sciamavano irrequieti fra le une e gli altri, e Adele sorrise intimamente soddisfatta. A lei invece non dispiaceva quel caos di macchine. Le sembrava rappresentasse bene il sangue che percorre le vene di una metropoli, troppo antica in realtà, e la sostiene perché altrimenti della propria vetustà quella città sarebbe morta già da tempo.
      Rivide ancora la vecchia, comunque, al suo ritorno – l’aveva evidentemente seguita passo passo lungo la stretta via Benedetta, tra gelaterie e rosticcerie e piccole botteghe di cianfrusaglie - e cominciò a chiedersi seriamente cosa volesse da lei. Solo allora notò gli occhi rotondi e scurissimi e il modo in cui camminava. A scatti, con piccoli passi meccanici, come se avesse dimenticato il modo in cui ci si muove. Non sembrava malata. Solo  vecchia, anzi vecchissima. Si chiese se la conoscesse. Ma le pareva di non averla mai vista prima.
      La ignorò con ostentazione e si avvicinò, come faceva sempre prima di rientrare, al grande portone dell’edificio che troneggiava proprio di fronte alla sua casa. Il Palazzo Corsini.
      Adele sapeva che era uno degli edifici più importanti e belli di Roma. Aveva letto che in passato vi aveva abitato la regina Cristina di Svezia, e aveva ospitato l’Accademia dell’Arcadia, il quale nome le evocava tempi e personaggi che dovevano essere stati a dir poco meravigliosi. Adesso era occupato dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica, in una sua parte, e nel corpo centrale dall’Accademia dei Lincei che era un luogo in cui, pareva, uomini di genio studiavano e creavano arte. Imponente e bellissimo, l’edificio era composto da tre piani e si sviluppava per un lungo tratto della Lungara, proprio dirimpetto al Lungotevere e, naturalmente, al fiume stesso. I timpani delicati e le cornici delle moltissime finestre gli conferivano un aspetto poderoso. L’ingresso, tripartito, era sormontato da un balcone su cui s’affacciavano tre grandi vetrate. Dalle balaustre in ferro battuto sporgevano bandiere esauste ma sempre accuratamente infiocchettate. Dei tre portali, uno solo era aperto e da lì si accedeva all’interno del palazzo oltre che a uno splendido giardino che Adele aveva solo intravisto.
Era confine, spalancato ma sorvegliato, che l’attirava ogni volta, quando tornava verso casa. E più che il portone, l’attraeva l’uomo che si occupava dell’ingresso.
Antonio anche oggi, come sempre, sostava all’ombra del balcone di pietra, sotto il capitello centrale. Apparentemente distratto, le sembrò in realtà in attesa del suo rientro. Falsamente impegnato in qualche misteriosa e poco appariscente occupazione. Adele si sentì fremere.
Dall’altro lato della strada, proprio accanto alla porta di casa sua, trafitta da quell’intenso sole d’ottobre, la vecchia pareva anch’essa in attesa di qualcosa. O di qualcuno. Adele le lanciò a malapena un’occhiata ricevendo, in cambio, un sorriso sdentato. Antonio si mise tra lei e la strana donna, dando le spalle a questa
- Adele, amore mio, cosa abbiamo, oggi? – Adele arrossì. Sapeva che Antonio offriva quell’appellativo, “amore”, a metà delle ragazze del quartiere, ma non poteva fare a meno di sentirsi felice quando la chiamava così.
- Oh, le solite cose, - si schermì lei, avvicinandosi il più possibile senza apparire sfrontata.
L’uomo indossava una specie di divisa da portiere. Pantaloni attillati, grigi. E una camicia chiara con le maniche arrotolate sui polsi. Uno stemma indecifrabile sul taschino, a sinistra del suo cuore.
- Frutta di stagione? – le domandò.
- Frutta di stagione. Certo. Uva zuccherina. Mi hanno detto che è dolce come se c’avessero versato sopra del miele. Sarà poi vero?
Antonio ammiccò. Inclinò la testa di lato, come se si fosse messo in ascolto.
- Mica mi fido, Antonio, - continuò lei. – Non sono nata ieri. Ma mi sembrava un’uva talmente bella. Vuole vedere?
Aprì la sporta sotto il braccio magro. Acini gonfi di polpa spuntarono dal cartoccio che li avvolgeva. A vederlo, sembra un gran bel grappolo. Antonio allungò la testa, lo sguardo esperto che vagliava la spesa di Adele. Anche la vecchia, dall’altra parte, dietro le spalle di lui, allungò il collo. Aveva un sorriso sghembo. Fili di rame tra i capelli grigi. Adesso che la vedeva da vicino, Adele si accorse che sapeva di sporco, di unto. Di cose infilate ad ammuffire in un sottotetto.
- Sembra buona – sentenziò il portiere di Palazzo Corsini. – Ma non si sa mai.
- Vincenzo, il fruttivendolo, pare un buon diavolo. In genere mi serve bene.
- Vincenzo di Vicolo della Renella?
- Quello. Vado solo da lui.
- Poveraccio, tutto il giorno con quei bengalesi tra le palle! Gli fanno concorrenza, sa? Comunque di lui si può fidare. Sembra un grappolo bello maturo.
- Me lo ha giurato. Dolce e zuccherina.
“Zuccherina”, sembrò ripetere la vecchia, alle spalle di Antonio. Le labbra di cartapesta inciampano in quella parola. La assaporano. E gli occhi le diventano bianchi. Accecanti. Forse il ricordo dello zucchero le risvegliava nostalgie insopportabili. Adele avrebbe voluto scacciarla ma non era possibile. Non adesso, con Antonio che la guardava.
Il sorriso della vecchia marcì.
Antonio assaggiò un acino e fu sopraffatto dal sapore.
- E’ buono!
Adele lo guardò, all’improvviso incredula. Non ricordava di avergli offerto la sua uva. Nessuno gli aveva dato il permesso di razzolare nella sua spesa. Restò però incantata a osservare le labbra dell’uomo che si muovevano, inumidite dal succo della frutta, mentre mangiava. Quella vista le rovesciò improvvisamente lo stomaco. Le esplose un’immagine nella testa. La faccia di Antonio, tra le sue gambe aperte e nude. Antonio che si solleva, le sorride, ammiccante come sempre, e poi affonda di nuovo sulla sua vagina. Antonio che succhia, morde, lecca e ingoia. E poi Antonio che solleva un’altra volta la testa e la guarda, la bocca impiastrata di rosso. Del rosso del suo sangue mestruale.
Adele si scostò d’istinto. Non avrebbe più mangiato quell’uva. Anzi, l’avrebbe buttata subito. Non sarebbe neanche salita in casa prima di aver buttato quel cartoccio di acini rossi e corrotti nel primo cassonetto disponibile lungo la strada. 

domenica 2 novembre 2014

Intervista ad Ippolito Chiarello

Intervista ad Ippolito Chiarello     
 di Lucia Mariano




- Ippolito Chiarello, ha abituato il suo pubblico ad ammirarla nella grande plasticità e poliedricità nel ricoprire perfettamente più ruoli differenti, - attore, regista, formatore di talenti, non poco attento anche nei confronti dei disagi sociali – facendo propri oltre agli interessi cinematografici, anche quelli teatrali e musicali. Nasce nel cuore del sud, a Corsano, e nonostante i suoi lavori vadano anche ben oltre i confini nazionali, ha sempre custodito e tutelato un forte legame con l’amato Salento.  Di certo questa scelta, in un contesto sociale e geografico in cui le “fughe dei talenti” siano considerate l’ordinarietà, rappresenta, uno straordinario atto di coraggio. Ad oggi, dovendo redigere un suo personale bilancio su Ippolito Chiarello, Artista, quale risultato otterrebbe, cosa leggerebbe nell’attivo e cosa nel passivo?
Quando si stila un bilancio significa che siamo alla fine della storia, oppure, come penso io, i bilanci devono essere sempre fatti per capire cosa abbiamo fatto, gli errori, i punti di forza e quindi ripartire e magari cambiare strada totalmente. Nel mio percorso penso che tutto quello che ho fatto ha avuto senso, nel bene e nel male. Ho imparato molto e l’esperienza accumulata come uomo e come artista mi gratifica molto e sento di essere in ascolto per poter sempre imparare qualcosa. All’attivo ho una grande gioia, la possibilità di fare un lavoro che mi entusiasma e che mi fa vivere ogni giorno sempre con nuovi stimoli, nuovi incontri, nuove cose da fare. Non vivo il dramma della ripetizione. In passivo forse posso annoverare una vita privata “privata” di tutto quello che è la normalità. Ma non so se è un male questo.

- Ha lavorato con “Nasca Teatri di Terra”, un nuovo laboratorio artistico, un libero spazio aperto, che s'ispira in linea di principio al concetto di attore “ecosostenibile” e di ricerca culturale intesa nel senso più puro e profondo del termine; prima ancora con “Compagnia Koreja” di Lecce; ha inoltre creato un nuovo genere di  arte, caratterizzata da un legame intenso e diretto tra l’artista e il pubblico; mi riferisco al suo “Barbonaggio Teatrale”, da cosa è stato caratterizzato il suo percorso di ricerca, quali sono le tensioni verso cui è incline?
 - La mia ossessione e missione di artista e per la quale sono ormai noto alle cronache nazionali è il mio lavoro per creare un rapporto sentimentale con il pubblico dell’arte e del teatro in particolare.
Sono anni che cammino su strade parallele. Lo faccio non solo perché credo che tutto il sistema teatrale e dell'arte non abbia "visioni", ma perché credo che ogni epoca debba essere indagata e capita e quindi affrontata con nuovi mezzi e nuove modalità, non perdendo mai di vista il centro: l'edificio teatro e i luoghi deputati alle varie arti.
Lo faccio perché non credo che le soluzioni debbano essere lasciate solo nelle mani delle istituzioni.
Lo faccio perché sono convinto che manchi un anello fondamentale e fondante dell'arte: il pensiero sulla gente che diventa pubblico attivo di un processo e quindi finanziatore morale e materiale del mio lavoro.
In questi anni con la mia casa aperta dal 2006 diventata cinema e teatro, le residenze nei paesi sperduti e il BARBONAGGIO che è diventato movimento artistico concreto, ho costruito e continuo a costruire una garanzia e un motivo per il mio lavoro: un pubblico fedele che segue il mio percorso e, letteralmente, mi aiuta e finanzia la mia/sua ricerca in ambito artistico.
La strada, le case, i distributori, i supermercati, i pub, le librerie sono luoghi da frequentare come trincee per arrivare alle prime linee. Sono luoghi dove esercitare il nostro mestiere corpo a corpo per vincere una guerra e entrare tutti insieme nella città conquistata.
Sono luoghi dove allenare la gente a un linguaggio, dove portare altra gente a conoscere una pratica.
Il teatro però si deve fare a teatro ed è per questo che si deve sempre di più farlo anche fuori dal teatro.
Lo scarto è sapere che si esce dal teatro per riportare la gente a "casa".



- Dall’esperienza con Dario Fò a “Fanculo Pensiero Stanza 510” in ginocchio sul palco dei Negramaro per  "Casa 69 Tour”, cosa c’è nel mezzo?
 - Ci sono incontri, laboratori con centinaia di ragazzi e ragazze, il teatro a scuola. Ci sono le relazioni e l’impegno quotidiano onesto e profondo nel sociale, nelle carceri, nei luoghi del disagio. C’è lo studio e l’impegno con questo luogo importante che è anche la mia casa artistica l’AMMIRATO CULTURE HOUSE. Un luogo sostenuto dalla fondazione canadese MUSAGETES e che mette insieme una grande idea di lavoro in comune e di pratiche comuni. L’arte che agisce sulle trasformazioni delle comunità. Partire dal quartiere per arrivare al mondo. C’è una casa che è il mio nido e una terra, il Salento, una città Lecce che amo follemente e che mi proteggono ogni giorno.
  
- “L’amor perduto” è stato il tema di ricerca di “Ti racconto a Capo 2014” di cui lei è il direttore artistico; progetto che ancora una volta vede tra i protagonisti il meraviglio sud, i suoi abitanti, i giovani artisti italiani e stranieri desiderosi di  vivere una nuova esperienza culturale e formativa; mi chiedo se, alla fine della residenza estiva, “l’amor perduto” sia stato finalmente ritrovato.
 - E’ un ‘esperienza ogni anno entusiasmante, profonda, gioiosa, di lavoro duro e consapevole. 16 artisti che ormai vengono da tutte le parti del mondo per conoscere il mio lavoro. Un paese, Corsano, nel profondo sud, che partecipa ed è strumento del percorso artistico che ormai è arrivato alla quinta edizione. Un tema su cui confrontarsi. Quest’anno siamo stati travolti dall’AMOR PERDUTO. E’ stato un percorso che ha provato i nostri sentimenti e che ci ha messo finalmente davanti alla possibilità di ritornare ad usare le parole per dichiarare tutto ciò che ormai è diventato alibi virtuale. Io dico che l’abbiamo trovato. Ritrovato. Anche grazie all’aiuto dei racconti del corteggiamento antico, dei nostri nonni, che scrivevano lunghe e reiterate lettere alle proprie amate o amati. Una lezione di semplicità da cui ci siamo a fatica separati. L’anno prossimo il tema sarà IL VIAGGIO. Vi aspettiamo.



- In campo cinematografico, la sua principale attività è di interprete, basti pensare a “Fine pena mai”, “… a Levante”, e “Il venditore di medicine”;  pochi mesi fa, so che ha ricoperto il ruolo di Sindaco inLatin Lover” un film girato in Puglia da Cristina Comencini, e che presto vedremo nelle sale italiane, ci parli di questo nuovo lavoro, ci dia qualche anticipazione.
 - Nel cinema ormai ci passo un po’ di tempo e mi diverte molto. Si, quest’anno, oltre ad essere nelle sale con IL VENDITORE DI MEDICINE, LA SANTA, e CONTRORA con cui ho partecipato al Festival del cinema di Roma 2013, ho girato il film della Comencini LATIN LOVER con un cast stellare: VIRNA LISI, MARISA PAREDES, TONI BERTORELLI, NERI MARCORE’, ANGELA FINOCCHIARO, VALERIA BRUNI TEDESCHI, che dovrebbe uscire a febbraio 2015. In questo film ho interpretato il ruolo del sindaco di questo paese del sud che organizza per i dieci anni della morte di un concittadino attore famoso, una commemorazione con tanto di targa da scoprire davanti alla popolazione. Oltre a questo mi piace segnalare anche il mio film, che ho scritto insieme a Matteo Greco, che ne è anche il regista e che è una lettura poetica del mio progetto del Barbonaggio Teatrale. Il film si intitola OGNI VOLTA CHE PARLO CON ME ed è prodotto, oltre che da me, Matteo Greco e Kama, principalmente dal pubblico della strada e con il sostegno della Puglia Film Commission e della rete pugliese dei Teatri Abitati. Il film, che è stato girato in Italia e nelle principali capitali e città europee (CANNES, BARCELLONA, MADRID, PARIGI, LONDRA, BERLINO), lo potrete vedere presto anche a Lecce e che distribuiremo e faremo girare in tutto il territorio nazionale e all’estero.




- Nel suo prossimo futuro cosa ci sarà, quali saranno i nuovi progetti?
Il futuro è ricco di appuntamenti. A settembre ho debuttato al festival Start Up di Taranto con il mio nuovo spettacolo “PSYCHO KILLER quanto mi dai se ti uccido?”, con la regia di Michelangelo Campanale, che mi vede attore in scena accompagnato al sax dall’amico e ormai grande artista internazionale Raffaele Casarano e dall’altrettanto bravo Marco Bardoscia o Stefano Rielli al contrabbasso. Lo potrete vedere a Lecce ai Cantieri Teatrali Koreja il 10 gennaio 2015. Sono attualmente in prova nella nuova produzione della compagnia Factory LA BISBETICA DOMATA, in anteprima a Mesagne il 14 novembre e in prima nazionale a Lecce a Marzo 2015. Comincerà a novembre le prove per un Eduardo De Filippo, L’ABITO NUOVO con Marco Manchisi e la compagnia La luna nel letto, che debutterà a Bari a novembre 2015. Oltre questo naturalmente c’è la scuola di teatro dell’Ammirato, un progetto sul teatro dialettale in via Leuca a Lecce APE STORY, il progetto LAVORATRICI con la consigliera di parità della Provincia di Lecce Alessia Ferrei, che indaga con il teatro le problematiche femminili e i soprusi e la violenza nei luoghi di lavoro. E poi le tournée degli spettacoli che partirà da fine novembre e finirà a maggio. Oltre agli spettacoli già citati girerò ancora con Il Barbonaggio e il Film collegato, lo spettacolo FANCULOPENSIERO STANZA 510, Oggi Sposi e il Romeo e Giulietta sempre della Compagnia Factory che è giunto al terzo anno di repliche.




lunedì 29 settembre 2014

Intervista al Dott. Ciro Federico Troiano
di Lucia Mariano





 - Dottor Troiano, lei è considerato da molti come il precursore circa l’utilizzo e l’applicazione degli strumenti di interesse scientifico volti a studiare ed a prevenire, attraverso l’impiego di tecniche di contrasto i “nuovi volti del crimine”; è stato colui che ha dato vita ad una serie di termini e di concetti nuovi, ad esempio “la zoocriminalità minorile”, citata per la prima volta  nel 1999 in un suo volume; ed ha inoltre coniato il termine “Zoomafia”, quasi ripercorrendo le orme del pretore di Ravanusa, che nella “Relazione Damiani” del 1884, fa riferimento ad un “terzo tipo di mafia”. Ci spieghi cosa viene inteso con il neologismo “Zoomafia”?
 - La Relazione Damiani esaminava la situazione post unitaria delle classi agricole in Sicilia analizzando anche i soprusi che subivano i contadini e braccianti dai proprietari terrieri e dai campieri. La locuzione “Terzo tipo di mafia” faceva riferimento a unioni di persone non ben definite che si accordavano per realizzare profitti e interessi vari illegali. Ovviamente non c’è nessun rapporto o legame diretto con la zoomafia, però il concetto è lo stesso. Per zoomafia si intende lo sfruttamento degli animali per ragioni economiche, di controllo sociale e di dominio territoriale. Si tratta di uno sfruttamento criminale, ovvero perpetrato da persone singole o associate o appartenenti a cosche mafiose o a clan camorristici. Con questo neologismo, però -e qui vi può essere un legame con il concetto di “Terza mafia”-, indichiamo anche la nascita e lo sviluppo  di un mondo delinquenziale diverso, ma parallelo e contiguo a quello mafioso, di una nuova forma di criminalità, che pur gravitando nell’universo malavitoso e sviluppandosi dallo stesso humus socio-culturale, trova come motivo di nascita, aggregazione  e crescita, l’uso di animali per attività economico-criminali.  

- E’ sempre stato attivo non solo intellettualmente, ma anche in prima persona, lottando contro qualsiasi forma di sfruttamento criminale degli animali, e ha conferito una serie di premi, di riconoscimenti e menzioni importanti , “Miglior azione di conservazione”, “I cento Eroi mondiali dell’Ambiente”, “Premio San Francesco Città di Genova”, "Premio Agorà". Nel 1999 con la LAV, Lega Anti Vivisezione, ha fondato l’Osservatorio Nazionale Zoomafia di cui è responsabile; di cosa si interessa il suo Osservatorio?
- L’Osservatorio Nazionale Zoomafia è una struttura che rientra fra i sistemi di controllo informale della criminalità, finalizzata all’analisi criminologica –anche sotto il profilo economico-finanziario- dello sfruttamento degli animali da parte di organizzazioni criminali, gruppi organizzati o persone in concorso tra loro. Ci occupiamo delle varie forme di “maltrattamento organizzato”. Alcune tipologie di maltrattamento, infatti, sono intrinsecamente, ontologicamente consociative e trovano la loro consumazione solo sotto forma di evento programmato e organizzato. Esse richiedono la formazione preliminare dell’associazione senza la quale l’evento-maltrattamento non si può realizzare. Sotto questo aspetto, il sodalizio diventa il presupposto necessario per concretare il maltrattamento. Si pensi ai combattimenti tra animali, alle corse clandestine di cavalli, all’abigeato e traffico di fauna ecc. Nella nostra analisi rientrano anche fenomeni criminali come la zoocriminalità minorile, ovvero il coinvolgimento di bambini e minorenni in attività illegali che coinvolgono gli animali, e le violenze agite da minorenni nei riguardi di animali. Abbiamo da poco, ad esempio, concluso la somministrazione di un questionario a un campione di oltre 1000 ragazzi sulla violenza contro gli animali assistita o agita da preadolescenti e adolescenti nei riguardi di animali. I dati li stiamo esaminano e ci aiuteranno a capire un fenomeno ancora poco esplorato e a proporre profili di politica criminale. Ci interessiamo anche del fenomeno delle sette e delle forme di maltrattamento animali che comportano; della violenza di genere che vede svariati maltrattamenti ai danni degli animali della vittima umana che sono veri e propri eventi sentinella e prodromici di una violenza sempre crescente; della zooerastia e dello sfruttamento sessuale degli animali.
L’Osservatorio collabora con tutti gli organi di Polizia Giudiziaria e con la Magistratura. Sovente siamo chiamati a tenere corsi e lezioni nelle varie scuole delle forze di polizia.

- Ha insegnato, “tecniche di contrasto alla zoomafia” e “criminologia dei diritti animali” presso le scuole della Polizia, dei Carabinieri e della Forestale, redigendo numerosi saggi e articoli a riguardo. Nel suo libro, “Zoomafia - Mafia, Camorra & gli altri animali”, (Edizioni Cosmopolis), viene data al lettore la concreta possibilità di rendersi conto in maniera tangibile, di quanto sia ampio, importante e pericoloso il fenomeno criminale zoomafioso in Italia. In alcune pagine del suo libro, racconta delle non poche minacce e delle ripetute violenze ai danni della sua persona, subite a causa del suo lavoro; in una di queste si legge una domanda da parte di un certo “P. V.”, che oltre a minacciarlo di morte, si rivolge a lei dicendo: “Per una bustina di roba bianca qualcuno ti spara e ti uccide, cosa hai guadagnato tu? Senti allora, togliti di mezzo, stai a casa, fai il bravo”. Conviene con me, Dott. Troiano, che anche solo la legge 189/04, fortemente voluta da voi della LAV, potrebbe essere ad oggi, nell’elenco delle tante risposte da dare al “P.V.”? Quali importanti modifiche vengono apportate al Codice Penale grazie a questa legge?
- Sicuramente la 189/04 ha rappresentato una svolta importante nella tutela penale degli altri animali nel nostro Paese. Molti obiettivi e risultati investigativi sarebbero stati impensabili senza questa legge. Ovviamente è venuto il momento di perfezionarla, di apportare delle modifiche migliorative, di renderne l’applicazione più efficace. Per spiegare la portata innovativa rappresentata dalla 189/04 è opportuno ricordare la normativa previgente. Può sembrare strano, ma nel nostro sistema giuridico fino a dieci anni fa, ovvero al 2004 anno in cui è entrata in vigore la nuova normativa contro il maltrattamento, non esisteva alcuna norma, né sotto forma di precetto né di sanzione, che vietasse esplicitamente i combattimenti tra animali o le corse clandestine di cavalli. Se per le lotte tra animali vi era lo “spauracchio” giuridico della sanzione penale prevista per il maltrattamento degli animali, per le corse clandestine non vi era neanche quello: solo in caso di reale danno ai cavalli era ipotizzabile il maltrattamento. Non solo, anche laddove sussistevano i presupposti, le persone denunciate andavano incontro a un’impunità quasi certa, perché il reato previsto – l’articolo 727 del codice penale – era di natura contravvenzionale e poteva essere estinto con un’oblazione, si prescriveva al massimo in tre anni da quando era stato compiuto, non era configurabile la fattispecie penale dell’associazione per delinquere e non poteva essere punito a titolo di tentativo. Inoltre la pena era di massimo 10 milioni di vecchie lire. Solo ammenda, neanche arresto. La legge 189/04, anche se in fase di approvazione è stata depotenziata rispetto alla sua stesura originaria e per questo riteniamo sia da perfezionare in alcuni aspetti, con la sua portata innovativa ha rivoluzionato l’approccio giuridico al problema, istituendo il delitto di “organizzazione di combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali”. La nuova normativa, infatti, configurando la fattispecie “divieto di combattimenti fra animali” come delittuosa anziché come contravvenzionale, prevedendo la reclusione da uno a tre anni oltre la multa che può arrivare fino a 160.000 euro, disciplinando aumenti di pena in casi, ad esempio, di concorso di minori o di utilizzo di videoriproduzioni, punendo anche chi, fuori dal concorso nel reato, alleva, addestra o è proprietario di cani destinati alle lotte e ovviamente sanzionando chi effettua o organizza scommesse, ha posto le basi per una nuova azione di contrasto, più determinata ed efficace.

- Dottore, con il suo “Rapporto Zoomafia” pubblicato annualmente, è possibile tracciare sia territorialmente, sia temporalmente le funzioni ricoperte dagli animali nel sistema mafioso e le varie evoluzioni dei fenomeni riguardanti il nuovo volto del crimine. Cosa si evince, analizzando il “Rapporto Zoomafia 2014”?
 - Il nuovo Rapporto Zoomafia conferma la condotta trasformista e “infiltrante” delle organizzazioni criminali dedite ai traffici zoomafiosi capaci di trovare e inventarsi sempre nuovi canali di malaffare. Illegalità, malaffare, violenza: tutto a danno degli animali. I traffici legati allo sfruttamento degli animali rappresentano un’importante fonte di guadagno per i vari gruppi criminali che manifestano una spiccata capacità di trarre vantaggio da qualsiasi trasformazione del territorio e di guadagnare il massimo rischiando poco. La vendita illegale di uccelli è sicuramente meno rischiosa di altre attività illegali e garantisce guadagni di tutto rispetto. A livello internazionale, la criminalità organizzata dedita ai vari traffici a danno degli animali si distingue per la sua capacità di agire su scala internazionale, per il suo orientamento al business, per la capacità di massimizzare il profitto riducendo il rischio. Sono il simbolo, al pari delle altre mafie, della società globalizzata.
Il traffico di cuccioli rappresenta la prima emergenza zoomafiosa seguita dalle corse clandestine. Di contro, però, diminuiscono le azioni di contrasto alle corse clandestine di cavalli. Vi è ripresa virulenta dei combattimenti tra cani. Aumentano i traffici di animali rari e protetti.  “Cupola del bestiame”, macellazione clandestina, sofisticazioni alimentari restano pericoli costanti e vi è un allarme pesca illegale. Ancora, zoocriminalità minorile e diffusione web dei traffici di animali. Insomma, è un lungo catalogo di violenze organizzate, spesso sistematiche e seriali, che mietono migliaia di animali ogni anno, quello analizzato nel Rapporto Zoomafia 2014. Basti pensare che ogni ora nel nostro Paese si apre un procedimento penale per reati contro gli animali.

- Lei ha più volte detto, riferendosi al traffico illegale di cuccioli, “gli animali sono nostri amici, ed io non compro i miei amici”; oggi sempre più frequentemente molti voti noti, anche negli ambienti scientifici, sono inclini a riconoscere la cancerogenicità della carne intesa come alimento, primo tra tutti l’oncologo Veronesi, è possibile estendere la sua massima in questo modo, “gli animali sono nostri amici, ed io non compro e non mangio i miei amici”? Cosa si può fare per sensibilizzare maggiormente la gente, così che possa compiere una scelta alimentare di tipo etico e salutista?
- In realtà lo slogan originario è proprio “gli animali sono miei amici e io non mangio i miei amici”. La questione alimentare è una questione etica, si sa. Attraverso le proprie scelte si può salvare la vita di altri esseri viventi e contribuire al rispetto dell’ambiente, alla salvaguardia dei delicatissimi equilibri naturali e alla difesa di un’economia solidale. Sempre di più, però, la questione alimentare diventa anche un problema di sicurezza. In questa prospettiva etica e sicurezza si incrociano e diventano valori imprescindibili. Ogni sofisticazione alimentare di prodotti di origine animale che implica manipolazione alla natura biologica degli animali è un’offesa al loro benessere. Anche i “prodotti” adulterati di origine animale che non richiedono la loro uccisione, provengono da lunghe e silenziose sofferenze alle quali si aggiungono le adulterazioni. Le sofisticazioni si innestano in un sistema in cui la vita animale e quella umana hanno scarso valore: chi è disposto ad avvelenare le persone con “cibo” adulterato, non si preoccupa certamente della vita degli altri animali… Ovviamente non possiamo che consigliare di orientarsi verso un’alimentazione sana, anche sotto il profilo etico, e non cruenta.

- Prima della conclusione, di questa nostra, vorrei parlare delle sue passioni, la legalità, lo studio della filosofia e dell’antropologia criminale, l’amore per gli animali, e per i bambini. So che ha tenuto una serie di corsi nelle varie scuole del Paese, per sensibilizzare le nuove generazioni alla legalità. So anche che il suo amore verso i bambini va al di là del territorio nazionale stesso, con soventi viaggi verso il continente africano, anche al fine di far pervenire personalmente “aiuti umanitari” e cancelleria nelle scuole dei villaggi tanzaniani. Nel ringraziarla per la disponibilità e la cortesia dimostratami concedendomi quest’intervista, le chiedo un ultimo racconto; questa volta però non riguardante il lavoro, ma la sua vita privata, le sue vacanze, il tempo libero che dedica sempre e comunque alla solidarietà; le chiedo uno dei ricordi più belli a proposito dei suoi viaggi nella tanto cara e tanto amata Africa. 

- Sono una persona riservata e schiva nel parlare della mia vita privata e personale. I ricordi sono tanti, ma penso sempre a uno sguardo di un bambino. C’era l’infinito in quegli occhi, lo stesso del mio silenzio: io muto mentre cercavo la strada per le mie parole, come viandante smarrito, straniero in me stesso.




sabato 20 settembre 2014

PER IL BLOG... meravigliosa poesia regalatami dal caro amico Paolo Di Mizio


INTERPRETANDO L'AFRICA

di Lucia Mariano






Seduto per terra, circondato da calderoni nerissimi come la pece, tra terra rossa e cenere bianca,  un signore con uno stuzzicadenti in bocca,  vestito all’occidentale,  impugna un coltello e scuoia un galletto spennacchiato;  un tegame di metallo con la testa immobile della bestiolina e un secchio di plastica sporco di sangue e pieno di piume,  sono in bella mostra tra le sue gambe.  Una bambina sugli otto anni gli è davanti  e regge il corpo inerme di un secondo galletto, mentre l’uomo sorridendo lo svuota dalle interiora, un’altra è seduta proprio vicino a lui, è più piccola,  vestita con un abitino lucido di caldissimo poliestere, molto più grande della sua taglia, si rannicchia al fianco dell’uomo, cercando invano di nascondere la testa sotto il braccio di lui, mi guarda e piange;  io le sorrido e le dico dolcemente delle parole rassicuranti, ma lei non capisce il francese, conosce solo il morè, il dialetto del posto, allora mi allontano per tranquillizzarla e il signore mi spiega che la piccola ha paura di me, perché non sono di colore, perché la mia pelle è bianca, perché in quel posto, mai fino a quel giorno, l’uomo bianco ha messo piede.
Mi trovo nel villaggio di Pissilla, siamo otto “nassara” (uomini bianchi) di “Cuore Africa”, eseguiamo il primo sopralluogo nel campo incolto in cui, grazie ai fondi raccolti dall’associazione di Corrado Salmè, si costruirà un nuovo pozzo. Il capo del villaggio ci racconta, che ogni giorno le loro donne devono percorrere a piedi numerosi km, per arrivare in un villaggio vicino, riempire di acqua i contenitori e rientrare alle capanne sotto il sole rovente; ci dice che esiste sicuro l’acqua in quel posto, perché nei paraggi ne sono già stati scavati due, ma che appartengono ad altre comunità religiose, e che agli evangelici non danno da bere.


Ricordo perfettamente quanto quel giorno fosse particolarmente caldo, quanto l’aria ricca di pulviscolo rosso fosse pesante ed appiccicosa, quanto la completa mancanza di servizi igenici, e la presenza di una scrofa con i suoi maialini in un piccolo acquitrino pieno di mosche, non rendessero di certo meno difficile la nostra presenza in quel posto sperduto ed avvolto dalle cicatrici della terra brulla.
 

Ricordo ogni singolo abbraccio dato ai bambini, scalzi, e sporchi come non mai; ci volevano toccare, e noi missionari eravamo contenti che lo facessero; ricordo che mentre gli uomini parlavano del pozzo, io pensavo solo a loro, a quei piccoli, avrei voluto portarli via da lì, avrei voluto lavarli, vestirli, nutrirli uno ad uno; ricordo che durante la distribuzione delle caramelle, io ero come in una vertigine, avevo nel mio cuore un’esplosione di sentimenti contrastanti,  un paradossale mix perfetto di straordinaria onnipotenza e d’impotenza assoluta; ero fiera, orgogliosa di quello che stavo facendo; ma nello stesso tempo ero anche triste, angosciata, mortificata, perché non potevo fare di più, perché quei bambini che possedevano solo la miseria, la fame, e troppo spesso la morte, durante quel brevissimo tempo erano felici, e mi ripetevano in continuo, con la caramella ancora in bocca, “merci, merci…”, incuranti che finita la gioia del momento, sarebbero ritornati nella disgrazia e nell’inopia di tutti i loro giorni.

Questo è stato uno degli otto indimenticabili giorni trascorsi in Africa nel mese di dicembre,  giorni dalle tabelle di marcia pienissime in cui noi di Cuore Africa abbiamo distribuito cibo, vestiti, cancelleria, farmaci e sovvenzionato pienamente la costruzione del pozzo in Pisilla; giorni in cui ho avuto il privilegio di conoscere gente meravigliosa che non possiede davvero niente, ma che riesce a donare con cuore sincero tutto ciò che ha; mi riferisco all’ospitalità, all’affetto, al rispetto, ed alla gratitudine.

Una volta rientrata in Italia è stato difficile riprendere i ritmi normali, ho lasciato un pezzo del mio cuore nei villaggi sperduti del Burkina, non ho potuto dimenticare quel Paese e ho continuato a sostenere la missione; nel mese di gennaio, ho voluto adottare una bimba, si chiama Hawa, ha 8 anni, è bellissima, nel mio prossimo viaggio la rivedrò.

Custodirò sempre nel mio cuore gli occhi puliti del popolo burkinabè,  la fierezza delle loro donne, e soprattutto i sorrisi dei bambini; proteggerò il ricordo delle notti africane passate a danzare al ritmo dei tamburi in festa, il ricordo della vigilia del natale trascorsa con i bambini di Kaya, il ricordo della distribuzione del riso alle tante vedove.

Ogni notte, nel mio letto, avvolta dal silenzio buio, ripenso alla mia cara Africa,  risento le vocine dei bambini che ho lasciato lì, che non ho potuto portare con me, che non potrò mai portare con me, perché per il loro Stato non esistono; quei bambini sono ombre, veri angeli, vite di cui nessuno conosce l’esistenza; ripenso alle donne della “terra degli uomini liberi”, donne dai seni vuoti e dalle pance stanche, che non partoriscono la vita, ma la morte; che rassegnate, guardano impotenti i loro figli affamati, assetati, sporchi, e troppo spesso malati; ogni notte, il mio ultimo pensiero, tutto il mio affetto, la mia profonda stima, va a loro ed ai loro piccoli.


Il mio desiderio di riuscire a fare ogni giorno di più, di riuscire a far conoscere chi ancora non sa, di continuare a raccogliere aiuti, e di sensibilizzare il grande cuore di  noi Italiani, diventa, nel mio di cuore, sempre più profondo, perché sono certa che ognuno di noi possa fare davvero molto per quelle persone dimenticate da tutti.