Un regalo speciale, un lavoro che deve ancora vedere la "luce", un nuovo esperimento di Marco De Franchi, un capitolo di un romanzo in scrittura, un inedito non definitivo, in cui il testo finale potrebbe anche essere molto diverso.
“Adele”
1
Come ogni mattina, dopo la colazione e una doccia bollente, interminabile, quasi dolorosa, Adele si contemplava nel grande specchio del bagno, e lo faceva a lungo, senza pudore, indagando con attenzione ogni profilo del suo aspetto, ogni piega del suo corpo nudo, dalla radice dei capelli al delta del sesso. Non lo faceva per narcisismo né per la ragione contraria. Non cercava difetti e non si compiaceva per l’assenza di essi. La natura della sua investigazione mattutina – una specie di rito prima di uscire cui ormai non sapeva rinunciare – era di altro genere. Adele si guardava e si interrogava, ogni volta, immancabilmente, su quello che gli altri potessero pensare di lei. Chi vedessero davvero.
Adele non era particolarmente bella, ma non si poteva dire fosse brutta. Aveva la fronte alta, incorniciata da capelli biondo cenere un po’ rattristati da una pettinatura timida e una coda di cavallo sciatta. Occhi chiari, forse troppo. Sfumavano da un verde acquamarina, intorno alla pupilla, fino a un periferico grigio opaco. Il naso era dritto e pronunciato e terminava in una punta a forma di cuore. Da bambina era delizioso, adesso, a quarant’anni suonati, sembrava troppo importante a causa dei contorni del suo viso, non particolarmente marcati. La pelle chiara, poi, contribuiva a rendere del suo volto un’idea come di indefinitezza. La bocca era certamente la parte più bella. Era carnosa e il labbro superiore sporgeva leggermente rispetto a quello inferiore, tanto da renderne l’aspetto quasi irresistibile. Non l’aveva detto lei. C’era stato qualcuno, una volta. Uomini. Ma con loro, francamente, era tutto sempre troppo confuso e incerto.
La domanda che però Adele si faceva, davanti alla sua immagine, era sempre la stessa. Si vede? Si vede la mia natura? Dal colore della mia pelle, dalle venature dei miei occhi, dal contorno del mio viso. Si vede cosa c’è dietro? Si scorge chi e cosa sono realmente?
Alle sue spalle, la porta si apriva sul lungo corridoio che procedeva dritto e deserto per poi girare verso le scale che portavano al piano inferiore. La luce del primo mattino metteva in fuga le ultime ombre e i reduci chiaroscuri. La forma delle cose emergeva a fatica dalla notte trascorsa, arrampicandosi sulle scale dietro di lei.
Una testa fece improvviso capolino dietro lo stipite. La vide attraverso lo specchio. La testa si nascose. Cu-cù. Adele non vi badò. Tornò a fissare la propria immagine. I seni piccoli ma pieni. Le spalle forse un po’ troppo magre. Non voleva il giudizio degli altri. Voleva pensare di piacere. Ma non voleva si scorgesse chi fosse veramente.
Dietro di lei il corridoio continuava ad apparire vuoto. Si sentì inquieta. Chiuse gli occhi. Controllò la porta e la maniglia che aveva dentro la mente. Una grande porta scura. Una bella maniglia d’ottone lucido. Era chiusa. Sicuramente. L’aveva lasciata così, l’ultima volta che l’aveva immaginata. Non era una cosa che potesse dimenticare. Tornò ad aprire gli occhi e scrutò ancora l’ambiente alle sue spalle. Nulla. Nessun movimento.
Nessuno, infatti, avrebbe dovuto esserci alle sue spalle.
Adele Halbritter viveva da sola in una vecchia palazzina di tre piani, tra il Gianicolo e Trastevere, nella pancia stessa di quella Roma in cui palazzi e luoghi non sono mai estranei a inquietanti presenze.
2
La notò subito, non appena fuori di casa. Il sole piombava sulla via come se si fosse francamente stancato di restare inchiodato al cielo, i suoi raggi rendevano le facciate dei palazzi specchi incandescenti. La vecchia si riparava nell’esile rettifilo d’ombra che correva lungo palazzo Corsini, proprio di fronte a casa sua. Evidentemente la luce le dava fastidio. Si copriva in parte il volto raggrinzito con un foulard nero che doveva avere per lo meno cent’anni. E non c’era dubbio che stesse guardando nella sua direzione. Adele finse di non averla vista, si assicurò che il portone di casa fosse serrato, e imboccò con decisione via della Lungara in direzione della porta Settimiana. Il tragitto in programma era lo stesso di ogni giorno. Non c’era senso a cambiare. Prima si sarebbe fermata all’antica chiesetta di Santa Dorotea, dove avrebbe sostato non più di dieci minuti, il tempo di un Padrenostro, più per abitudine che per sincera devozione. Non avrebbe mancato di passare, poi, sotto la finestra della Fornaretta, dove Adele avrebbe speso un pensiero magico, come sempre. Dicevano che là avesse abitato tale Margherita Luti, mitica amante del Raffaello quando questi dipingeva i suoi affreschi nei palazzi romani. Adele non sapeva quanto quella storia fosse autentica, ma le piaceva pensare di vivere a cento metri dal luogo dove il grande pittore del ‘500 aveva amoreggiato con quell’illustre sconosciuta. Quindi, rianimato lo spirito prima ancora della carne – che fosse spirito sacro o profano poco le importava - si sarebbe finalmente immersa nel rassicurante caos di Trastevere, dove si sarebbe fermata alle botteghe che conosceva per fare un po’ di spesa. Il programma di una bella camminata che le avrebbe preso la maggior parte della mattinata.
Perse quasi subito di vista la vecchia che la seguiva. Anche se la intravide di nuovo arrivata a Piazza Trilussa, lambita dal traffico del Lungotevere che scorreva impazzito, come al solito. In parte nascosta da un gruppo di turisti colorati e in infradito, la vecchia le sembrò in difficoltà di fronte al flusso caotico delle auto, dei bus e dei milioni di scooter che sciamavano irrequieti fra le une e gli altri, e Adele sorrise intimamente soddisfatta. A lei invece non dispiaceva quel caos di macchine. Le sembrava rappresentasse bene il sangue che percorre le vene di una metropoli, troppo antica in realtà, e la sostiene perché altrimenti della propria vetustà quella città sarebbe morta già da tempo.
Rivide ancora la vecchia, comunque, al suo ritorno – l’aveva evidentemente seguita passo passo lungo la stretta via Benedetta, tra gelaterie e rosticcerie e piccole botteghe di cianfrusaglie - e cominciò a chiedersi seriamente cosa volesse da lei. Solo allora notò gli occhi rotondi e scurissimi e il modo in cui camminava. A scatti, con piccoli passi meccanici, come se avesse dimenticato il modo in cui ci si muove. Non sembrava malata. Solo vecchia, anzi vecchissima. Si chiese se la conoscesse. Ma le pareva di non averla mai vista prima.
La ignorò con ostentazione e si avvicinò, come faceva sempre prima di rientrare, al grande portone dell’edificio che troneggiava proprio di fronte alla sua casa. Il Palazzo Corsini.
Adele sapeva che era uno degli edifici più importanti e belli di Roma. Aveva letto che in passato vi aveva abitato la regina Cristina di Svezia, e aveva ospitato l’Accademia dell’Arcadia, il quale nome le evocava tempi e personaggi che dovevano essere stati a dir poco meravigliosi. Adesso era occupato dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica, in una sua parte, e nel corpo centrale dall’Accademia dei Lincei che era un luogo in cui, pareva, uomini di genio studiavano e creavano arte. Imponente e bellissimo, l’edificio era composto da tre piani e si sviluppava per un lungo tratto della Lungara, proprio dirimpetto al Lungotevere e, naturalmente, al fiume stesso. I timpani delicati e le cornici delle moltissime finestre gli conferivano un aspetto poderoso. L’ingresso, tripartito, era sormontato da un balcone su cui s’affacciavano tre grandi vetrate. Dalle balaustre in ferro battuto sporgevano bandiere esauste ma sempre accuratamente infiocchettate. Dei tre portali, uno solo era aperto e da lì si accedeva all’interno del palazzo oltre che a uno splendido giardino che Adele aveva solo intravisto.
Era confine, spalancato ma sorvegliato, che l’attirava ogni volta, quando tornava verso casa. E più che il portone, l’attraeva l’uomo che si occupava dell’ingresso.
Antonio anche oggi, come sempre, sostava all’ombra del balcone di pietra, sotto il capitello centrale. Apparentemente distratto, le sembrò in realtà in attesa del suo rientro. Falsamente impegnato in qualche misteriosa e poco appariscente occupazione. Adele si sentì fremere.
Dall’altro lato della strada, proprio accanto alla porta di casa sua, trafitta da quell’intenso sole d’ottobre, la vecchia pareva anch’essa in attesa di qualcosa. O di qualcuno. Adele le lanciò a malapena un’occhiata ricevendo, in cambio, un sorriso sdentato. Antonio si mise tra lei e la strana donna, dando le spalle a questa
- Adele, amore mio, cosa abbiamo, oggi? – Adele arrossì. Sapeva che Antonio offriva quell’appellativo, “amore”, a metà delle ragazze del quartiere, ma non poteva fare a meno di sentirsi felice quando la chiamava così.
- Oh, le solite cose, - si schermì lei, avvicinandosi il più possibile senza apparire sfrontata.
L’uomo indossava una specie di divisa da portiere. Pantaloni attillati, grigi. E una camicia chiara con le maniche arrotolate sui polsi. Uno stemma indecifrabile sul taschino, a sinistra del suo cuore.
- Frutta di stagione? – le domandò.
- Frutta di stagione. Certo. Uva zuccherina. Mi hanno detto che è dolce come se c’avessero versato sopra del miele. Sarà poi vero?
Antonio ammiccò. Inclinò la testa di lato, come se si fosse messo in ascolto.
- Mica mi fido, Antonio, - continuò lei. – Non sono nata ieri. Ma mi sembrava un’uva talmente bella. Vuole vedere?
Aprì la sporta sotto il braccio magro. Acini gonfi di polpa spuntarono dal cartoccio che li avvolgeva. A vederlo, sembra un gran bel grappolo. Antonio allungò la testa, lo sguardo esperto che vagliava la spesa di Adele. Anche la vecchia, dall’altra parte, dietro le spalle di lui, allungò il collo. Aveva un sorriso sghembo. Fili di rame tra i capelli grigi. Adesso che la vedeva da vicino, Adele si accorse che sapeva di sporco, di unto. Di cose infilate ad ammuffire in un sottotetto.
- Sembra buona – sentenziò il portiere di Palazzo Corsini. – Ma non si sa mai.
- Vincenzo, il fruttivendolo, pare un buon diavolo. In genere mi serve bene.
- Vincenzo di Vicolo della Renella?
- Quello. Vado solo da lui.
- Poveraccio, tutto il giorno con quei bengalesi tra le palle! Gli fanno concorrenza, sa? Comunque di lui si può fidare. Sembra un grappolo bello maturo.
- Me lo ha giurato. Dolce e zuccherina.
“Zuccherina”, sembrò ripetere la vecchia, alle spalle di Antonio. Le labbra di cartapesta inciampano in quella parola. La assaporano. E gli occhi le diventano bianchi. Accecanti. Forse il ricordo dello zucchero le risvegliava nostalgie insopportabili. Adele avrebbe voluto scacciarla ma non era possibile. Non adesso, con Antonio che la guardava.
Il sorriso della vecchia marcì.
Antonio assaggiò un acino e fu sopraffatto dal sapore.
- E’ buono!
Adele lo guardò, all’improvviso incredula. Non ricordava di avergli offerto la sua uva. Nessuno gli aveva dato il permesso di razzolare nella sua spesa. Restò però incantata a osservare le labbra dell’uomo che si muovevano, inumidite dal succo della frutta, mentre mangiava. Quella vista le rovesciò improvvisamente lo stomaco. Le esplose un’immagine nella testa. La faccia di Antonio, tra le sue gambe aperte e nude. Antonio che si solleva, le sorride, ammiccante come sempre, e poi affonda di nuovo sulla sua vagina. Antonio che succhia, morde, lecca e ingoia. E poi Antonio che solleva un’altra volta la testa e la guarda, la bocca impiastrata di rosso. Del rosso del suo sangue mestruale.
Adele si scostò d’istinto. Non avrebbe più mangiato quell’uva. Anzi, l’avrebbe buttata subito. Non sarebbe neanche salita in casa prima di aver buttato quel cartoccio di acini rossi e corrotti nel primo cassonetto disponibile lungo la strada.