mercoledì 3 agosto 2016

L'importanza della misurazione nel "Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella Nuova"

Nel cielo di Padova, durante l’autunno del 1604, accade un avvenimento straordinario: appare una nuova stella luminosissima, perfettamente visibile a occhio nudo, la stella Nuova. Si tratta dell’esplosione nella nostra galassia, a circa 20.000 anni luce dalla terra, della Supernova 1604, conosciuta anche dagli astronomi come Supernova di Keplero, visibile nel continente europeo per circa diciotto mesi.
È un evento eccezionale che suscita un ampio e profondo interesse anche nel mondo accademico, perché la comparsa di un nuovo corpo celeste sembra negare il principio aristotelico dell’incorruttibilità dei cieli. Galileo Galilei, che dal 1592 è lettore di matematica all’Università di Padova, dedica all’argomento tre lezioni in cui illustra il fenomeno da un punto di vista scientifico, presentando i suoi calcoli relativi alle distanze dalla stella. Si interessa al nuovo fenomeno anche Cesare Cremonini, professore di filosofia nell’ateneo patavino, interprete dell’opera di Aristotele accusato di eresia per essersi lasciato sedurre dall’argomento della mortalità dell’anima. Non pochi studiosi sostengono che Cremonini sia in realtà Antonio Lorenzini, l’autore dell’opera intitolata Discorso intorno alla Nuova Stella nei confronti della quale si concentrano le successive polemiche. Sei settimane dopo la pubblicazione dell’opera di Lorenzini appare infatti il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella Nuova, un testo scritto in dialetto pavano in cui sono presi in giro il filosofo Lorenzini e il suo Discorso, senza mai citarli direttamente. Subito corre voce che Cecco di Ronchitti da Bruzene sia uno pseudonimo usato da Galilei per firmare il suo lavoro. «Nessun Cecco aveva mai scritto queste cose: erano uscite dalle mani di Galilei e d’un suo allievo e amico, un benedettino di nome Girolamo Spinelli» . Bruzene è certamente l’attuale Brugine, un piccolo centro agricolo non distante da Padova denominato in veneto Brùxene . L’opera è dedicata al canonico del Duomo di Padova, Antonio Quarengo, nel testo chiamato «Squerengo» . Nel Dialogo, pubblicato a Padova nel 1605 e composto di appena 28 pagine, due contadini, Matteo e Natale, sono interessati alla comparsa della stella Nuova, perché pensano che possa essere la causa dell’aridità dei campi. I due si chiedono, rientrando dal lavoro, se oltre alla siccità, la stella Nuova non sia in grado di infondere altri effetti sulla terra. Uno dei contadini, Natale, aveva letto gli scritti di un letterato padovano, il filosofo Lorenzini, il quale affermava che la stella fosse in realtà qualcosa di posto al di sotto della luna e per questo non molto lontana dai campi destinati all’agricoltura. Secondo il paradigma aristotelico-tolemaico, al quale il filosofo Lorenzini faceva riferimento per sostenere le sue tesi, la collocazione della stella Nuova nel mondo sublunare non avrebbe compromesso il principio dell’immutabilità dei cieli, perché sotto la sfera della luna erano possibili modificazioni e mutamenti. Matteo chiede all’amico se il letterato, il «Filuorico» , fosse in grado di compiere misurazioni, perché queste sono le uniche in grado di permettere il rilevamento di certezze scientifiche. «La replica di Natale entrava allora nel vivo: il letterato, nel suo “librazzuolo”, aveva appunto detto che i matematici facevano misure ma nulla capivano. E non capivano nulla perché se dicevano che si aveva a che fare con una lontanissima stella nuova, allora diventava obbligatorio immaginare che il Cielo fosse sede di corruzione e generazione» . I matematici sapevano prendere le misure, ma non sempre sapevano trarne le necessarie conseguenze e conclusioni, perché anch’essi subivano i condizionamenti della filosofia scolastica e aristotelica, che li induceva a dedicare le loro speculazioni ad aspetti inerenti le essenze. Il registro comunicativo del Dialogo è molto diverso da quella adottato nelle tre lectiones tenute da Galilei a Padova, in cui furono presentate a un pubblico universitario di oltre mille persone misurazioni ed evidenze osservazionali, ricorrendo al linguaggio della scienza basato sulla rilevazione dei dati riguardanti lo svolgimento del fenomeno e sulla quantificazione. Nel Dialogo l’autore fa invece prendere la parola a due contadini privi di conoscenze scientifiche e che non possono non esprimersi in un linguaggio “vile”. A tal riguardo è interessante notare che sarà lo stesso Galilei, in una lettera inviata al frate benedettino Benedetto Castelli nel 1613 e poi ancora in un’altra lettera spedita due anni dopo a Madama Cristina di Lorena, a richiamare il «principio della subalternatio scientiarum in base al quale “una scienza inferiore ha bisogno di una scienza superiore”» , principio allora in auge nelle discussioni sul rapporto tra la teoria copernicana e le Sacre Scritture, per sottolineare la necessità di adattarsi all’incapacità del vulgo: «Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti» . Per Galilei le conoscenze sono acquisite attraverso i sensi: quindi in questo caso attraverso la vista e l’osservazione della stella Nuova, visibile sia ai contadini, sia ai filosofi e ai matematici. Ma le sole «sensate esperienze» non sono sufficienti, perché tutto deve essere tradotto in termini numerici, in quanto l’unica certezza valida è quella matematica. Infatti, lo scopo di Galilei è «liberare la verità scientifica da qualsiasi tipo di tutela che non sia il serrato e autonomo confronto tra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”: questa è, per Galileo, e sopra ogni cosa, la vera posta in gioco» . Per Galilei non possono esistere qualità intrinseche nei corpi, perché ciò che riguarda la materia non può essere altro se non quantità. Nel capitolo quarantotto del Saggiatore, Galilei propone un’ipotesi per assurdo: presenta l’esempio di una mano che tocca prima un uomo e poi una statua, concludendo che il senso di “solletico” della mano non si produce per una qualità dell’oggetto esterno, ma del soggetto che si rapporta all’oggetto. Le qualità, le sensazioni, obbediscono ai soggetti e non agli oggetti, mentre gli oggetti sono passibili solo di rilevazioni di tipo quantitativo, e quindi numeriche: «tolti via gli orecchi, le lingue, e i nasi, restino bene le figure, i numeri, e i moti, mà non già gli odori, ne i sapori, ne i suoni, li quali fuor dell'animal viuente, non credo, che sieno altro, che nomi, come à punto altro, che nome non è il solletico, e la titillazione, rimosse l'ascelle, e la pelle intorno al naso» , e poi ancora, «auendo già veduto, come molte affezzioni, che sono riputate qualità risedenti ne' soggetti esterni, non anno veramente altra esistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro, che nomi» . Nel Dialogo si nota chiaramente l’idea di scindere la filosofia dall’astronomia. Per Galilei la prima si occupa delle essenze, la seconda invece si interessa di conoscenze di tipo matematico. Le posizioni galileiane sono espresse nel Dialogo da Matteo: «i lettori del Dialogo erano in tal modo portati a cogliere il senso vero della disputa. Il nocciolo delle divergenze non stava tanto negli ambiti dell'astronomia propriamente detta, quanto nelle norme e nelle credenze consolidate che all'astronomia provenivano da una dominante visione filosofica che predicava sull'essenza del Cielo e delle stelle. Chi era culturalmente conscio dei rapporti tradizionali tra osservazione astronomica e metafisica coglieva immediatamente la portata e la profondità della frattura che Galilei disegnava per bocca di Matteo: ai matematici nulla doveva importare delle essenze o delle generazioni e corruzioni» . L’unico modo quindi per definire se si tratta di un corpo celeste o sublunare è di avvalersi dell’indagine quantitativa, e quindi compiere misurazioni. Santorio Santorio, pioniere delle misurazioni fisiche in medicina, amico di Galilei e primo a usare il suo «scherzino», il termometro da lui inventato , sostiene che si debba misurare tutto ciò che è presente nel nostro corpo. Fino a quel momento l’idea di quantità non faceva parte della ricerca scientifica, ma tutto era legato all’idea di qualità dei corpi, perché vigeva il paradigma aristotelico secondo il quale i corpi tendono verso il basso e verso l’alto in base alla loro qualità. Le misurazioni sulla terra non avevano alcun senso; anzi non era neppure possibile ottenerle perché l’unico luogo in cui era possibile applicare la matematica era il mondo celeste, che si riteneva non essere fatto dei quattro elementi propri della terra e del loro incessante aggregarsi e separarsi, ma si pensava che fosse composto di un’altra sostanza per definizione immutabile, non soggetta ad alterazioni, eterna e perfetta, cioè l’etere, chiamata anche quinta essenza . L’autore del Dialogo non manca di ridicolizzare i matematici del tempo, anch’essi condizionati dall’aristotelismo quando discettavano sulla stella Nuova, scoperta dall’astronomo Ilario Altobelli il nove di ottobre e vista come una fonte di luce variabile, di luminosità crescente, che nel corso di alcuni mesi scomparve completamente, lasciando tutto il mondo scientifico in difficoltà circa la sua classificazione. Nel Dialogo gli aristotelici sono accusati di fermarsi alle parole del maestro e di non voler vedere la realtà nella sua verità: «Che più vaneggi, o Stagirita stolto / che puro il cielo e ingenerabili credi? / Stella nova in lui fissa, il chiaro volto / discopre scintillando, e non la vedi?» . Come è noto, per Galilei è importante smontare il principio di autorità che riconosce la bontà delle conclusioni in base all’autorevolezza di chi le propone. «L’ipse dixit non ha diritto di accesso nella scienza, e ai suoi oppositori che si trincerano dietro le opinioni di Aristotele Galilei dice: “Venite pure con le ragioni e le dimostrazioni, vostre o di Aristotele, ma non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”» . Quindi, la misurazione per Galilei è fondamentale ed è necessaria per avere verità non smentibili. Alexandre Koyré nel 1948 pubblicherà Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, un’opera in cui illustrerà il momento della nascita della scienza moderna, da lui rintracciato nell’introduzione del concetto di quantità, in altri termini nella capacità di astrarre dalle molteplici forme delle cose, cioè di convertire le cose più eterogenee in numero. Koyré, riprendendo le parole dello storico Lucien Febvre, scriverà: «duemila anni prima Pitagora aveva proclamato che il numero è l'essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra "il numero, il peso, la misura". Tutti l'hanno ripetuto, nessuno l'ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l'ha preso sul serio» . Galilei nel Dialogo sostiene l’idea della correttezza del paradigma copernicano, al quale aveva dichiarato la sua adesione nel 1597, prima nel mese di maggio con una lettera inviata a Jacopo Mazzoni e poi ancora nel mese di agosto con un’altra lettera inviata a Keplero . In tal modo egli mette in crisi il precedente paradigma geocentrico fondato sull’Almagesto di Tolomeo, sul De Caelo di Aristotele e sulla loro lettura tomistica, imperniato sull’immutabilità e la perfezione della fisica del Cielo, posta in opposizione alla precarietà della fisica terrestre. Galilei cercherà di scardinare con forza anche maggiore il paradigma aristotelico-tolemaico nel suo Dialogo sui massimi sistemi del mondo, opera che lo porterà al processo del 1633: «Io non dirò altro, se non chè può essere che per la parte ch'io stimo vera non sieno state prodotte nè da Aristotele né da Tolomeo le vere e necessarie» . L’opposizione tra le due fisiche, terrestre e celeste, verrà completamente superata solo dalla fisica classica. Margherita Hack scriverà: «Siamo figli delle stelle: e non è una battuta! è letteralmente così. Siamo fatti di materia fusa all'interno degli astri» . L’eliminazione della disuguaglianza qualitativa tra cielo e terra avviene già con Galilei, il quale sostiene che cielo e terra sono fatti della stessa sostanza e che la pretesa dell’esistenza nei cieli di una sostanza eterea, leggera, cristallina qual era l’etere è una supposizione completamente infondata. Nel 1610, pochi mesi prima del suo ingresso nella prestigiosa Accademia dei Lincei, Galilei pubblica a Venezia il suo Sidereus Nuncius, nel quale illustra, anche con 5 acquerelli da lui disegnati e colorati, le osservazioni compiute puntando il telescopio verso i cieli e dichiarando che ciò che vale sulla terra vale quindi anche nei cieli e i cieli non sono affatto il mondo della perfezione: «la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto, ma al contrario, disuguale» . Il cambiamento avvenuto con la fisica classica sarà caratterizzato anche dal ricorso al metodo sperimentale, cioè della necessità di avvalersi di osservazioni e di esperimenti: in altre parole, dalla prassi sperimentale introdotta pienamente con l’età moderna e la cui sequenza sarà compiutamente esplicitata da Claude Bernard nel 1865 . La vera «rivoluzione intellettuale», iniziata nell’annus mirabilis del 1543, con Copernico, definito da Shea: «un rivoluzionario prudente» e da Lutero: «un pazzo» , proseguita con Keplero, Galileo e Newton , si verifica secondo Koyrè quando «la precisione del cielo è scesa sulla terra» . Ciò accade anche quando, con movimento inverso, il concetto di quantità è usato in relazione ai corpi celesti ed è escluso ogni riferimento alle essenze, come avviene nelle lectiones patavine di Galilei, che misurano la stella Nuova, e nell’opera firmata da Cecco di Ronchitti da Bruzzene: «Anche se la materia costitutiva della stella fosse stata di polenta, notava infatti Matteo, nulla impediva di sottoporre il corpo celeste a operazioni atte a stabilire la sua vera posizione nello spazio. Solo questo contava». Lucia Mariano _____________________________________________________________________________________________ Bibliografia - AGNOLI P., Il senso della misura: la codifica della realtà tra filosofia, scienza ed esistenza umana, Armando, Roma 2004 - ARISTOTELE, De Caelo 1,3, Sansoni, 1962 - ARMOCIDA G.,Storia della medicina, Jaca Book, Milano 1993 - Atti, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1880 - BELLONE E., La stella nuova: l’evoluzione e il caso Galilei, Einaudi, Torino 2003 - BERNARD C., Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli, Milano 1973 - CAMBI F., GATTINI F., La scienza nella scuola e nel museo: percorsi di sperimentazione in classe e al museo, Armando Editore, Roma 2007 - DI TROCCHIO F., Il cammino della scienza. Successi, rischi, prospettive, Mondandori, Milano 2008 - Dizionario di toponomastica. 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