giovedì 27 novembre 2014

Ospitando Marco De Franchi


Un regalo speciale, un lavoro che deve ancora vedere la "luce", un nuovo esperimento di Marco De Franchi, un capitolo di un romanzo in scrittura, un inedito non definitivo, in cui il testo finale potrebbe anche essere molto diverso.





 “Adele”

1

Come ogni mattina, dopo la colazione e una doccia bollente, interminabile, quasi dolorosa, Adele si contemplava nel grande specchio del bagno, e lo faceva a lungo, senza pudore, indagando con attenzione ogni profilo del suo aspetto, ogni piega del suo corpo nudo, dalla radice dei capelli al delta del sesso. Non lo faceva per narcisismo né per la ragione contraria. Non cercava difetti e non si compiaceva per l’assenza di essi. La natura della sua investigazione mattutina – una specie di rito prima di uscire cui ormai non sapeva rinunciare – era di altro genere. Adele si guardava e si interrogava, ogni volta, immancabilmente, su quello che gli altri potessero pensare di lei. Chi vedessero davvero.
      Adele non era particolarmente bella, ma non si poteva dire fosse brutta. Aveva la fronte alta, incorniciata da capelli biondo cenere un po’ rattristati da una pettinatura timida e una coda di cavallo sciatta. Occhi chiari, forse troppo. Sfumavano da un verde acquamarina, intorno alla pupilla, fino a un periferico grigio opaco. Il naso era dritto e pronunciato e terminava in una punta a forma di cuore. Da bambina era delizioso, adesso, a quarant’anni suonati, sembrava troppo importante a causa dei contorni del suo viso, non particolarmente marcati. La pelle chiara, poi, contribuiva a rendere del suo volto un’idea come di indefinitezza. La bocca era certamente la parte più bella. Era carnosa e il labbro superiore sporgeva leggermente rispetto a quello inferiore, tanto da renderne l’aspetto quasi irresistibile. Non l’aveva detto lei. C’era stato qualcuno, una volta. Uomini. Ma con loro, francamente, era tutto sempre troppo confuso e incerto.
      La domanda che però Adele si faceva, davanti alla sua immagine, era sempre la stessa. Si vede? Si vede la mia natura? Dal colore della mia pelle, dalle venature dei miei occhi, dal contorno del mio viso. Si vede cosa c’è dietro? Si scorge chi e cosa sono realmente?
      Alle sue spalle, la porta si apriva sul lungo corridoio che procedeva dritto e deserto per poi girare verso le scale che portavano al piano inferiore. La luce del primo mattino metteva in fuga le ultime ombre e i reduci chiaroscuri. La forma delle cose emergeva a fatica dalla notte trascorsa, arrampicandosi sulle scale dietro di lei.
      Una testa fece improvviso capolino dietro lo stipite. La vide attraverso lo specchio. La testa si nascose. Cu-cù. Adele non vi badò. Tornò a fissare la propria immagine. I seni piccoli ma pieni. Le spalle forse un po’ troppo magre. Non voleva il giudizio degli altri. Voleva pensare di piacere. Ma non voleva si scorgesse chi fosse veramente.
Dietro di lei il corridoio continuava ad apparire vuoto. Si sentì inquieta. Chiuse gli occhi. Controllò la porta e la maniglia che aveva dentro la mente. Una grande porta scura. Una bella maniglia d’ottone lucido. Era chiusa. Sicuramente.  L’aveva lasciata così, l’ultima volta che l’aveva immaginata. Non era una cosa che potesse dimenticare. Tornò ad aprire gli occhi e scrutò ancora l’ambiente alle sue spalle. Nulla. Nessun movimento.
      Nessuno, infatti, avrebbe dovuto esserci alle sue spalle.
      Adele Halbritter viveva da sola in una vecchia palazzina di tre piani, tra il Gianicolo e Trastevere, nella pancia stessa di quella Roma in cui palazzi e luoghi non sono mai estranei a inquietanti presenze.
     

2

La notò subito, non appena fuori di casa. Il sole piombava sulla via come se si fosse francamente stancato di restare inchiodato al cielo, i suoi raggi rendevano le facciate dei palazzi specchi incandescenti. La vecchia si riparava nell’esile rettifilo d’ombra che correva lungo palazzo Corsini, proprio di fronte a casa sua. Evidentemente la luce le dava fastidio. Si copriva in parte il volto raggrinzito con un foulard nero che doveva avere per lo meno cent’anni. E non c’era dubbio che stesse guardando nella sua direzione. Adele finse di non averla vista, si assicurò che il portone di casa fosse serrato, e imboccò con decisione via della Lungara in direzione della porta Settimiana. Il tragitto in programma era lo stesso di ogni giorno. Non c’era senso a cambiare. Prima si sarebbe fermata all’antica chiesetta di Santa Dorotea, dove avrebbe sostato non più di dieci minuti, il tempo di un Padrenostro, più per abitudine che per sincera devozione. Non avrebbe mancato di passare, poi, sotto la finestra della Fornaretta, dove Adele avrebbe speso un pensiero magico, come sempre. Dicevano che là avesse abitato tale Margherita Luti, mitica amante del Raffaello quando questi dipingeva i suoi affreschi nei palazzi romani. Adele non sapeva quanto quella storia fosse autentica, ma le piaceva pensare di vivere a cento metri dal luogo dove il grande pittore del ‘500 aveva amoreggiato con quell’illustre sconosciuta. Quindi, rianimato lo spirito prima ancora della carne – che fosse spirito sacro o profano poco le importava - si sarebbe finalmente immersa nel rassicurante caos di Trastevere, dove si sarebbe fermata alle botteghe che conosceva per fare un po’ di spesa. Il programma di una bella camminata che le avrebbe preso la maggior parte della mattinata.
      Perse quasi subito di vista la vecchia che la seguiva. Anche se la intravide di nuovo arrivata a Piazza Trilussa, lambita dal traffico del Lungotevere che scorreva impazzito, come al solito. In parte nascosta da un gruppo di turisti colorati e in infradito, la vecchia le sembrò in difficoltà di fronte al flusso caotico delle auto, dei bus e dei milioni di scooter che sciamavano irrequieti fra le une e gli altri, e Adele sorrise intimamente soddisfatta. A lei invece non dispiaceva quel caos di macchine. Le sembrava rappresentasse bene il sangue che percorre le vene di una metropoli, troppo antica in realtà, e la sostiene perché altrimenti della propria vetustà quella città sarebbe morta già da tempo.
      Rivide ancora la vecchia, comunque, al suo ritorno – l’aveva evidentemente seguita passo passo lungo la stretta via Benedetta, tra gelaterie e rosticcerie e piccole botteghe di cianfrusaglie - e cominciò a chiedersi seriamente cosa volesse da lei. Solo allora notò gli occhi rotondi e scurissimi e il modo in cui camminava. A scatti, con piccoli passi meccanici, come se avesse dimenticato il modo in cui ci si muove. Non sembrava malata. Solo  vecchia, anzi vecchissima. Si chiese se la conoscesse. Ma le pareva di non averla mai vista prima.
      La ignorò con ostentazione e si avvicinò, come faceva sempre prima di rientrare, al grande portone dell’edificio che troneggiava proprio di fronte alla sua casa. Il Palazzo Corsini.
      Adele sapeva che era uno degli edifici più importanti e belli di Roma. Aveva letto che in passato vi aveva abitato la regina Cristina di Svezia, e aveva ospitato l’Accademia dell’Arcadia, il quale nome le evocava tempi e personaggi che dovevano essere stati a dir poco meravigliosi. Adesso era occupato dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica, in una sua parte, e nel corpo centrale dall’Accademia dei Lincei che era un luogo in cui, pareva, uomini di genio studiavano e creavano arte. Imponente e bellissimo, l’edificio era composto da tre piani e si sviluppava per un lungo tratto della Lungara, proprio dirimpetto al Lungotevere e, naturalmente, al fiume stesso. I timpani delicati e le cornici delle moltissime finestre gli conferivano un aspetto poderoso. L’ingresso, tripartito, era sormontato da un balcone su cui s’affacciavano tre grandi vetrate. Dalle balaustre in ferro battuto sporgevano bandiere esauste ma sempre accuratamente infiocchettate. Dei tre portali, uno solo era aperto e da lì si accedeva all’interno del palazzo oltre che a uno splendido giardino che Adele aveva solo intravisto.
Era confine, spalancato ma sorvegliato, che l’attirava ogni volta, quando tornava verso casa. E più che il portone, l’attraeva l’uomo che si occupava dell’ingresso.
Antonio anche oggi, come sempre, sostava all’ombra del balcone di pietra, sotto il capitello centrale. Apparentemente distratto, le sembrò in realtà in attesa del suo rientro. Falsamente impegnato in qualche misteriosa e poco appariscente occupazione. Adele si sentì fremere.
Dall’altro lato della strada, proprio accanto alla porta di casa sua, trafitta da quell’intenso sole d’ottobre, la vecchia pareva anch’essa in attesa di qualcosa. O di qualcuno. Adele le lanciò a malapena un’occhiata ricevendo, in cambio, un sorriso sdentato. Antonio si mise tra lei e la strana donna, dando le spalle a questa
- Adele, amore mio, cosa abbiamo, oggi? – Adele arrossì. Sapeva che Antonio offriva quell’appellativo, “amore”, a metà delle ragazze del quartiere, ma non poteva fare a meno di sentirsi felice quando la chiamava così.
- Oh, le solite cose, - si schermì lei, avvicinandosi il più possibile senza apparire sfrontata.
L’uomo indossava una specie di divisa da portiere. Pantaloni attillati, grigi. E una camicia chiara con le maniche arrotolate sui polsi. Uno stemma indecifrabile sul taschino, a sinistra del suo cuore.
- Frutta di stagione? – le domandò.
- Frutta di stagione. Certo. Uva zuccherina. Mi hanno detto che è dolce come se c’avessero versato sopra del miele. Sarà poi vero?
Antonio ammiccò. Inclinò la testa di lato, come se si fosse messo in ascolto.
- Mica mi fido, Antonio, - continuò lei. – Non sono nata ieri. Ma mi sembrava un’uva talmente bella. Vuole vedere?
Aprì la sporta sotto il braccio magro. Acini gonfi di polpa spuntarono dal cartoccio che li avvolgeva. A vederlo, sembra un gran bel grappolo. Antonio allungò la testa, lo sguardo esperto che vagliava la spesa di Adele. Anche la vecchia, dall’altra parte, dietro le spalle di lui, allungò il collo. Aveva un sorriso sghembo. Fili di rame tra i capelli grigi. Adesso che la vedeva da vicino, Adele si accorse che sapeva di sporco, di unto. Di cose infilate ad ammuffire in un sottotetto.
- Sembra buona – sentenziò il portiere di Palazzo Corsini. – Ma non si sa mai.
- Vincenzo, il fruttivendolo, pare un buon diavolo. In genere mi serve bene.
- Vincenzo di Vicolo della Renella?
- Quello. Vado solo da lui.
- Poveraccio, tutto il giorno con quei bengalesi tra le palle! Gli fanno concorrenza, sa? Comunque di lui si può fidare. Sembra un grappolo bello maturo.
- Me lo ha giurato. Dolce e zuccherina.
“Zuccherina”, sembrò ripetere la vecchia, alle spalle di Antonio. Le labbra di cartapesta inciampano in quella parola. La assaporano. E gli occhi le diventano bianchi. Accecanti. Forse il ricordo dello zucchero le risvegliava nostalgie insopportabili. Adele avrebbe voluto scacciarla ma non era possibile. Non adesso, con Antonio che la guardava.
Il sorriso della vecchia marcì.
Antonio assaggiò un acino e fu sopraffatto dal sapore.
- E’ buono!
Adele lo guardò, all’improvviso incredula. Non ricordava di avergli offerto la sua uva. Nessuno gli aveva dato il permesso di razzolare nella sua spesa. Restò però incantata a osservare le labbra dell’uomo che si muovevano, inumidite dal succo della frutta, mentre mangiava. Quella vista le rovesciò improvvisamente lo stomaco. Le esplose un’immagine nella testa. La faccia di Antonio, tra le sue gambe aperte e nude. Antonio che si solleva, le sorride, ammiccante come sempre, e poi affonda di nuovo sulla sua vagina. Antonio che succhia, morde, lecca e ingoia. E poi Antonio che solleva un’altra volta la testa e la guarda, la bocca impiastrata di rosso. Del rosso del suo sangue mestruale.
Adele si scostò d’istinto. Non avrebbe più mangiato quell’uva. Anzi, l’avrebbe buttata subito. Non sarebbe neanche salita in casa prima di aver buttato quel cartoccio di acini rossi e corrotti nel primo cassonetto disponibile lungo la strada. 

domenica 2 novembre 2014

Intervista ad Ippolito Chiarello

Intervista ad Ippolito Chiarello     
 di Lucia Mariano




- Ippolito Chiarello, ha abituato il suo pubblico ad ammirarla nella grande plasticità e poliedricità nel ricoprire perfettamente più ruoli differenti, - attore, regista, formatore di talenti, non poco attento anche nei confronti dei disagi sociali – facendo propri oltre agli interessi cinematografici, anche quelli teatrali e musicali. Nasce nel cuore del sud, a Corsano, e nonostante i suoi lavori vadano anche ben oltre i confini nazionali, ha sempre custodito e tutelato un forte legame con l’amato Salento.  Di certo questa scelta, in un contesto sociale e geografico in cui le “fughe dei talenti” siano considerate l’ordinarietà, rappresenta, uno straordinario atto di coraggio. Ad oggi, dovendo redigere un suo personale bilancio su Ippolito Chiarello, Artista, quale risultato otterrebbe, cosa leggerebbe nell’attivo e cosa nel passivo?
Quando si stila un bilancio significa che siamo alla fine della storia, oppure, come penso io, i bilanci devono essere sempre fatti per capire cosa abbiamo fatto, gli errori, i punti di forza e quindi ripartire e magari cambiare strada totalmente. Nel mio percorso penso che tutto quello che ho fatto ha avuto senso, nel bene e nel male. Ho imparato molto e l’esperienza accumulata come uomo e come artista mi gratifica molto e sento di essere in ascolto per poter sempre imparare qualcosa. All’attivo ho una grande gioia, la possibilità di fare un lavoro che mi entusiasma e che mi fa vivere ogni giorno sempre con nuovi stimoli, nuovi incontri, nuove cose da fare. Non vivo il dramma della ripetizione. In passivo forse posso annoverare una vita privata “privata” di tutto quello che è la normalità. Ma non so se è un male questo.

- Ha lavorato con “Nasca Teatri di Terra”, un nuovo laboratorio artistico, un libero spazio aperto, che s'ispira in linea di principio al concetto di attore “ecosostenibile” e di ricerca culturale intesa nel senso più puro e profondo del termine; prima ancora con “Compagnia Koreja” di Lecce; ha inoltre creato un nuovo genere di  arte, caratterizzata da un legame intenso e diretto tra l’artista e il pubblico; mi riferisco al suo “Barbonaggio Teatrale”, da cosa è stato caratterizzato il suo percorso di ricerca, quali sono le tensioni verso cui è incline?
 - La mia ossessione e missione di artista e per la quale sono ormai noto alle cronache nazionali è il mio lavoro per creare un rapporto sentimentale con il pubblico dell’arte e del teatro in particolare.
Sono anni che cammino su strade parallele. Lo faccio non solo perché credo che tutto il sistema teatrale e dell'arte non abbia "visioni", ma perché credo che ogni epoca debba essere indagata e capita e quindi affrontata con nuovi mezzi e nuove modalità, non perdendo mai di vista il centro: l'edificio teatro e i luoghi deputati alle varie arti.
Lo faccio perché non credo che le soluzioni debbano essere lasciate solo nelle mani delle istituzioni.
Lo faccio perché sono convinto che manchi un anello fondamentale e fondante dell'arte: il pensiero sulla gente che diventa pubblico attivo di un processo e quindi finanziatore morale e materiale del mio lavoro.
In questi anni con la mia casa aperta dal 2006 diventata cinema e teatro, le residenze nei paesi sperduti e il BARBONAGGIO che è diventato movimento artistico concreto, ho costruito e continuo a costruire una garanzia e un motivo per il mio lavoro: un pubblico fedele che segue il mio percorso e, letteralmente, mi aiuta e finanzia la mia/sua ricerca in ambito artistico.
La strada, le case, i distributori, i supermercati, i pub, le librerie sono luoghi da frequentare come trincee per arrivare alle prime linee. Sono luoghi dove esercitare il nostro mestiere corpo a corpo per vincere una guerra e entrare tutti insieme nella città conquistata.
Sono luoghi dove allenare la gente a un linguaggio, dove portare altra gente a conoscere una pratica.
Il teatro però si deve fare a teatro ed è per questo che si deve sempre di più farlo anche fuori dal teatro.
Lo scarto è sapere che si esce dal teatro per riportare la gente a "casa".



- Dall’esperienza con Dario Fò a “Fanculo Pensiero Stanza 510” in ginocchio sul palco dei Negramaro per  "Casa 69 Tour”, cosa c’è nel mezzo?
 - Ci sono incontri, laboratori con centinaia di ragazzi e ragazze, il teatro a scuola. Ci sono le relazioni e l’impegno quotidiano onesto e profondo nel sociale, nelle carceri, nei luoghi del disagio. C’è lo studio e l’impegno con questo luogo importante che è anche la mia casa artistica l’AMMIRATO CULTURE HOUSE. Un luogo sostenuto dalla fondazione canadese MUSAGETES e che mette insieme una grande idea di lavoro in comune e di pratiche comuni. L’arte che agisce sulle trasformazioni delle comunità. Partire dal quartiere per arrivare al mondo. C’è una casa che è il mio nido e una terra, il Salento, una città Lecce che amo follemente e che mi proteggono ogni giorno.
  
- “L’amor perduto” è stato il tema di ricerca di “Ti racconto a Capo 2014” di cui lei è il direttore artistico; progetto che ancora una volta vede tra i protagonisti il meraviglio sud, i suoi abitanti, i giovani artisti italiani e stranieri desiderosi di  vivere una nuova esperienza culturale e formativa; mi chiedo se, alla fine della residenza estiva, “l’amor perduto” sia stato finalmente ritrovato.
 - E’ un ‘esperienza ogni anno entusiasmante, profonda, gioiosa, di lavoro duro e consapevole. 16 artisti che ormai vengono da tutte le parti del mondo per conoscere il mio lavoro. Un paese, Corsano, nel profondo sud, che partecipa ed è strumento del percorso artistico che ormai è arrivato alla quinta edizione. Un tema su cui confrontarsi. Quest’anno siamo stati travolti dall’AMOR PERDUTO. E’ stato un percorso che ha provato i nostri sentimenti e che ci ha messo finalmente davanti alla possibilità di ritornare ad usare le parole per dichiarare tutto ciò che ormai è diventato alibi virtuale. Io dico che l’abbiamo trovato. Ritrovato. Anche grazie all’aiuto dei racconti del corteggiamento antico, dei nostri nonni, che scrivevano lunghe e reiterate lettere alle proprie amate o amati. Una lezione di semplicità da cui ci siamo a fatica separati. L’anno prossimo il tema sarà IL VIAGGIO. Vi aspettiamo.



- In campo cinematografico, la sua principale attività è di interprete, basti pensare a “Fine pena mai”, “… a Levante”, e “Il venditore di medicine”;  pochi mesi fa, so che ha ricoperto il ruolo di Sindaco inLatin Lover” un film girato in Puglia da Cristina Comencini, e che presto vedremo nelle sale italiane, ci parli di questo nuovo lavoro, ci dia qualche anticipazione.
 - Nel cinema ormai ci passo un po’ di tempo e mi diverte molto. Si, quest’anno, oltre ad essere nelle sale con IL VENDITORE DI MEDICINE, LA SANTA, e CONTRORA con cui ho partecipato al Festival del cinema di Roma 2013, ho girato il film della Comencini LATIN LOVER con un cast stellare: VIRNA LISI, MARISA PAREDES, TONI BERTORELLI, NERI MARCORE’, ANGELA FINOCCHIARO, VALERIA BRUNI TEDESCHI, che dovrebbe uscire a febbraio 2015. In questo film ho interpretato il ruolo del sindaco di questo paese del sud che organizza per i dieci anni della morte di un concittadino attore famoso, una commemorazione con tanto di targa da scoprire davanti alla popolazione. Oltre a questo mi piace segnalare anche il mio film, che ho scritto insieme a Matteo Greco, che ne è anche il regista e che è una lettura poetica del mio progetto del Barbonaggio Teatrale. Il film si intitola OGNI VOLTA CHE PARLO CON ME ed è prodotto, oltre che da me, Matteo Greco e Kama, principalmente dal pubblico della strada e con il sostegno della Puglia Film Commission e della rete pugliese dei Teatri Abitati. Il film, che è stato girato in Italia e nelle principali capitali e città europee (CANNES, BARCELLONA, MADRID, PARIGI, LONDRA, BERLINO), lo potrete vedere presto anche a Lecce e che distribuiremo e faremo girare in tutto il territorio nazionale e all’estero.




- Nel suo prossimo futuro cosa ci sarà, quali saranno i nuovi progetti?
Il futuro è ricco di appuntamenti. A settembre ho debuttato al festival Start Up di Taranto con il mio nuovo spettacolo “PSYCHO KILLER quanto mi dai se ti uccido?”, con la regia di Michelangelo Campanale, che mi vede attore in scena accompagnato al sax dall’amico e ormai grande artista internazionale Raffaele Casarano e dall’altrettanto bravo Marco Bardoscia o Stefano Rielli al contrabbasso. Lo potrete vedere a Lecce ai Cantieri Teatrali Koreja il 10 gennaio 2015. Sono attualmente in prova nella nuova produzione della compagnia Factory LA BISBETICA DOMATA, in anteprima a Mesagne il 14 novembre e in prima nazionale a Lecce a Marzo 2015. Comincerà a novembre le prove per un Eduardo De Filippo, L’ABITO NUOVO con Marco Manchisi e la compagnia La luna nel letto, che debutterà a Bari a novembre 2015. Oltre questo naturalmente c’è la scuola di teatro dell’Ammirato, un progetto sul teatro dialettale in via Leuca a Lecce APE STORY, il progetto LAVORATRICI con la consigliera di parità della Provincia di Lecce Alessia Ferrei, che indaga con il teatro le problematiche femminili e i soprusi e la violenza nei luoghi di lavoro. E poi le tournée degli spettacoli che partirà da fine novembre e finirà a maggio. Oltre agli spettacoli già citati girerò ancora con Il Barbonaggio e il Film collegato, lo spettacolo FANCULOPENSIERO STANZA 510, Oggi Sposi e il Romeo e Giulietta sempre della Compagnia Factory che è giunto al terzo anno di repliche.