Un regalo speciale, un lavoro che deve ancora vedere la "luce", un nuovo esperimento di Marco De Franchi, un capitolo di un romanzo in scrittura, un inedito non definitivo, in cui il testo finale potrebbe anche essere molto diverso.
La vecchia era tornata a sorridere. Ma i suoi occhi restarono
bianchi. I fili di rame tra i suoi capelli erano immobili, nonostante una
brezza leggera che animava la mattina.
La mente di Adele cominciò a cercare la maniglia. L’immagine
della maniglia.
Antonio interruppe il flusso dei suoi pensieri.
- Ha fatto proprio una buona scelta, Adele. Quest’uva è
strepitosa!
Adele serrò le labbra. Batté le palpebre sugli occhi marroni.
– Lo sapevo da me! - sibilò - Ma grazie. E buongiorno.
Poi attraversò la strada e invece di dirigersi verso il suo
portone, proseguì in direzione di via dei Riari, dalla porta opposta a quella
dalla quale era venuta, come se avesse dimenticato una commissione importante.
Alla sua destra scorreva il muro che la separava da Villa Farnesina e dall’immenso
giardino sul quale si affacciava anche la parte posteriore della sua casa.
Antonio restò a guardarla, fermo davanti al grande portone.
La vecchia invece riprese a seguirla. A distanza, ma la
seguiva. Procedeva dall’altra parte della strada rispetto a lei, lungo lo
stretto marciapiede, all’esile ombra dei cornicioni spioventi, sempre
guardandola coi suoi occhi senza colore.
Che pazienza ci voleva! Cercò ancora di evocare l’immagine della
maniglia, ma non riusciva a metterla a fuoco come si doveva. La porta era
aperta. Doveva essere così. Eppure era sempre stata attenta.
Il marciapiede odorava adesso di foglie appena morte. Venivano
dai platani lungo il Tevere e si depositavano lungo la strada, già cominciando
a scolorire. Colpa del vento dei giorni precedenti. Un vento che aveva scosso
Roma nelle sue fondamenta. Per il momento, l’odore delle foglie staccatesi
anzitempo dagli alberi era ancora buono. Poi, con le prime piogge, tutto avrebbe
iniziato a marcire. A puzzare. I miasmi avrebbero soffocato il quartiere,
finché qualcuno non avesse deciso a togliere quella sozzura dalla strada. Ecco.
Questa era una delle cose della morte che colpiva Adele. La trasformazione. Il
miracolo della decomposizione. Il mistero per il quale una cosa bella e odorosa
possa trasformarsi in una mostruosità maleodorante.
La vecchia sembrava aver colto quel suo pensiero, e s’era
fermata, come offesa, al di là della via.
Anche Adele si fermò. Aveva trovato finalmente un bidone
della spazzatura. Era arrivata all’angolo con via della Penitenza. Di fronte a
sé si sporgeva timidamente la chiesa di Santa Maria delle Scalette, con i due
ordini di scalini, appunto, che conducevano all’ingresso. Si diceva che nell’annesso
monastero, molti secoli prima, le donne di malaffare si recassero per
redimersi. Ancora l’amore profano che si mescolava col sacro. Adele si disfò
del cartoccio di uva zuccherina senza rimpianto. Aveva ancora negli occhi il
sopruso di Antonio. Cibarsi della sua uva senza aver richiesto il permesso.
Vedeva ancora le sue labbra sporche di succo rosso. Il suo succo!
Riprese la via di casa, mestamente. Le borse delle spesa che cominciavano
a pesare in fondo alle braccia. Camminava e fissava a sua volta quella figura
anziana e penosa.
La vecchia camminava e non parlava. I suoi occhi senza
pupilla visti da vicino erano raccapriccianti.
Adele si fermò e serrò le palpebre. La maniglia d’ottone
brillava ancora nel buio della sua mente. E sempre nella mente lei la raggiunse.
La sfiorò, l’afferrò, l’abbassò. La maniglia scivolò. La porta finalmente si
chiuse.
Quando Adele riaprì gli occhi, la vecchia non era scomparsa.
S’era anzi avvicinata. Stazionava in mezzo alla strada, adesso, e le sorrideva
cattiva. Felice che il trucco della maniglia non avesse funzionato.
Adele sussultò.
L’auto arrivò a forte velocità. Non si poteva correre in quel
modo per quelle strade strette, ma qualche idiota al volante c’era sempre.
La vecchia guardò Adele, poi guardò l’auto. Aprì la bocca,
per urlare, ma non uscì alcun suono. Tanto non ce l’avrebbe mai fatta a
spostarsi.
La macchina, una specie di siluro bianco e lucido, la investì
in pieno. Il corpo della vecchia volò in aria, ricadde, rimbalzò sull’asfalto
per due, tre volte. Alla fine restò immobile e contorto, accartocciato come un
ragno nero.
L’auto non accennò neanche a rallentare, tentò di curvare per
imboccare Via della Penitenza ma la curva era troppo stretta e la macchina
troppo veloce. Le gomme persero l’aderenza sulla strada. Si andò a schiantare
contro il muro di fronte, proprio sull’angolo della chiesa dedicata alle
puttane di Roma, con un fragore di ferro e vetro che costrinse Adele a lasciar
cadere a terra le sue buste e a portarsi le mani sulle orecchie.
Rimase in quella posizione, immobile, mentre alcune persone
accorrevano sul luogo dell’incidente. Tra queste, Antonio che arrivato alla sua
altezza le si fermò accanto. – Adele, ha visto che roba? Come sta? L’ha
sfiorata?
Adele si tolse le mani dalle orecchie. Il mondo riprese a
rumoreggiare. – No, sto bene, grazie. Vada ad aiutare quel poveretto!
- Quell’idiota, vorrà dire! Meriterebbe di esserci rimasto! –
Ma si affrettò a raggiungere il gruppo che s’era radunato intorno all’auto
incidentata. Stavano aiutando ad uscire dall’abitacolo deformato un ragazzo con
il volto insanguinato. Non sembrava in punto di morte.
Nessuno, invece, pareva essersi accorto del corpo devastato
della vecchia, rimasto al centro della strada. Un fagotto di membra e ossa
contorte. Che però continuavano a muoversi. Come un fascio di serpenti che
tentasse di districarsi da un complicato groviglio.
Un ritardatario nei soccorsi passò praticamente su quanto
restava della vecchia senza neanche accorgersene. I suoi piedi affondarono tra
le ossa spezzate che biancheggiavano miseramente esposte. L’uomo proseguì
tranquillamente la sua corsa verso il culmine dell’incidente, senza rallentare.
Si trascinò dietro filamenti di carne e sangue.
Adele non si scompose. Sapeva che era una finzione. Sapeva
che non era possibile.
I fantasmi sono già morti. Non sanguinano. Non gli si può
spezzare le ossa.
La vecchia intuì il suo pensiero, aprì gli occhi e la guardò.
La sua testa spuntava bianca e
apparentemente intatta dai resti del corpo maciullato. Le sorrise, sempre senza
denti.
- Oh, vaffanculo! – esclamò Adele. E tornò a visualizzare la
sua porta. Con più determinazione stavolta. La maniglia. Tirò. Sentì una lieve
resistenza. Aumentò la leva. Chiuse con forza. Bam!
La vecchia non c’era più. La strada era deserta.
Era tornata dietro la porta. Lì da dove venivano tutti loro.
3
Adele Halbritter era l’ultima superstite di una famiglia in
cui nessuno aveva mai alimentato la speranza di perpetuarne il nome. Suo padre
aveva vaghe radici austriache che non si era mai curato di certificare. Era
sceso da Pola, con i suoi genitori, alla fine della guerra, insieme ai profughi
che abbandonavano la penisola istriana, allora ancora italiana, nelle mani dei
soldati slavi di Tito. Era figlio unico. Bello, colto, ma senza una lira. Sua madre
era stata invece l’ultima rampolla di un ramo minore della famiglia Sforza, una
delle genealogie più nobili della capitale, la cui dote era consistita nella
palazzina seicentesca in cui Adele viveva oltre che in un discreto capitale
oculatamente investito in azioni vincolate.
C’era stato un fratello, una volta, molto più grande di lei,
ma era morto in un incidente stradale quando Adele era ancora piccola. Non
c’erano altri eredi o parenti. Adele era sola. Tutto sommato autosufficiente.
Ma soprattutto sola.
Non parlando,
naturalmente, dei Sognanti. Contando i quali la sua vita poteva dirsi, al
contrario, affollata.
Adele sapeva che si
trattava di persone morte e non addormentate. Ma aveva iniziato a chiamarli in
quel modo da bambina e l’abitudine era rimasta. Era stato suo padre, dal quale
sapeva di aver ereditato quella strana facoltà, che aveva dato loro quel nome.
La prima volta che
ne ricordava la percezione aveva sei anni. Una brutta caduta le aveva causato
la distorsione del polso destro e una fastidiosa fasciatura oltre a una specie
di confino in camera sua. Niente scuola, se non altro. E giornate noiose
infilate una dietro l’altra. Un pomeriggio, sua madre s’era affacciata
annunciandole che due amiche della sua classe erano venute a trovarla. Le aveva
fatte entrare e poi s’era occupata d’intrattenere le mamme che le avevano
accompagnate. In camera di Adele, però, erano entrate tre bambine, non due. Una
di loro, una ragazzina che non aveva mai visto prima, era apparsa per ultima,
s’era accucciata in un angolo, sorridendole, e aveva iniziato a giocare
silenziosamente con una delle sue Barbie. Le altre due avevano preso a
raccontarle delle loro giornate a scuola.
Il pomeriggio era trascorso piacevolmente. Ogni tanto Adele
si rivolgeva con educazione alla bimba sconosciuta, che pensava fosse amica
delle altre due, ricevendo in cambio muti ma cordiali sorrisi. Le due
amichette, quando Adele tentava di strappare una parola alla terza ospite, si
scambiavano furtive occhiate e condividevano improvvise e, per Adele,
inspiegabili risate. Notò anche che nessuna di quelle due rivolse mai la parola
alla piccola misteriosa ospite, il che le sembrò piuttosto scortese da parte
loro.
Quando nella
stanza, alla fine, entrò suo padre, informandole che era arrivata l’ora di
tornare a casa per tutte e che le loro mamme le stavano già aspettando, ad
Adele non sfuggì la strana occhiata che il signor Halbritter scoccò alla terza
bambina. Adele salutò le sue amiche, che però le parvero improvvisamente a
disagio. Continuavano a fissarla con una nuova espressione. Un atteggiamento
che Adele non aveva mai notato prima e che in seguito avrebbe imparato a
conoscere molto bene. Poi le bambine uscirono, ad eccezione della sconosciuta
che continuò a giocare imperterrita con le sue bambole.
Adele la fissò. Per
la prima volta avvertì che c’era qualcosa di strano in quella ragazzina. Il suo
piccolo cuore iniziò a battere con più forza.
Papà aveva fatto
uscire le amichette e le aveva affidate alle due mamme che, davanti alla porta
d’ingresso, continuavano a chiacchierare amabilmente con la signora Halbritter,
splendida e incurante padrona di casa. Quindi era rientrato in camera con
un’aria che Adele, se avesse avuto una maggior proprietà di linguaggio, avrebbe
senz’altro definita furtiva. S’era chinato sulla piccola silenziosa ospite.
Adele era rimasta a guardare affascinata, sapendo che quello che stava
accadendo non poteva essere considerato normale. Negli anni a venire, avrebbe
modificato decisamente la propria interpretazione del termine “normale”,
ampliandone i confini fino a limiti impensabili per la maggior parte delle
persone comuni. In quel momento era, invece, tutto nuovo.
Franco Halbritter
sembrava impegnato in una sussurrante conversazione con la sconosciuta. A
distanza di tanti anni, Adele, pur avendo una perfetta memoria delle immagini
di quanto avvenuto, non era mai più riuscita a ricordare le esatte parole utilizzate
da suo papà. Ne rammentava solo il senso generale.
L’uomo stava
chiedendo alla bambina se per piacere poteva tornare nel suo letto del grande
sonno. La piccola sembrava non volerne sapere, e suo padre, pur insistendo, non
alzò mai la voce. A un certo punto lo vide chiudere gli occhi. Le sembrò che
stesse dicendo qualcosa, una specie preghiera mormorata sulle labbra. Lo vide
sussultare. E la bambina sparì. Successe proprio come uno di quei trucchi che
si vedevano, a volte, nei programmi in TV. Di lei le rimasero impressi i begli
occhi tristi, che le sembrò fossero gli ultimi a scomparire del tutto. Ma
avvenne tutto molto velocemente e non avrebbe potuto dirlo con certezza.
Suo padre si
rialzò, le diede un bacio sulla fronte e uscì dalla stanza. Non le fornì alcuna
spiegazione.
Solamente più
tardi, con il buio inoltrato e la mamma certamente a letto, lo vide tornare e
sedersi sul bordo del suo lettino. Adele lo aspettava. Capì che era arrivata
l’ora delle spiegazioni e si sorprese a scoprire che, in fondo, lei sapeva già quello
papà stesse per dirle. Quasi tutto, per lo meno.
Suo padre le spiegò
così che quella bambina che era apparsa come per incanto in camera sua
apparteneva ad una categoria speciale di persone. Le chiamò “i Sognanti”. Si
trattava di uomini o donne o bambini che colti da una strana e misteriosa
malattia s’erano improvvisamente e inconsapevolmente addormentati e adesso passavano
il tempo a sognare. Sognavano così forte e con tale intensità che a volte
uscivano dai propri sogni e andavano in giro per il mondo a fare le cose di cui
da svegli amavano occuparsi. Naturalmente i loro corpi di carne e ossa restavano
lì dove s’erano addormentati e quello che Adele aveva potuto vedere era solo
l’immagine del vero aspetto della piccola Sognante. Il loro involucro era fatto della sostanza dei sogni,
quindi, e i Sognanti non potevano toccare né farsi toccare dalle persone
Sveglie. Non potevano dunque fare del male né potevano subirlo. Erano solo
immagini ad occhi aperti. A volte fastidiosi ma mai pericolosi. Ah, c’era
un’altra cosa. Nessuno poteva vederli o percepirne la presenza. A parte alcune
persone speciali, molto poche per la verità. Una era lei, Adele. E anche il suo
papà aveva il potere di vederli. Non sempre, ma abbastanza spesso.
In quel primo e
purtroppo ultimo discorso, papà aveva volutamente omesso qualche informazione.
Non le aveva detto che i “Sognanti” erano in realtà i morti, anche se Adele
aveva intuito la verità. Né ebbe mai la possibilità di spiegarle la ragione di
quel sotterfugio. Adele immaginò, col tempo, che suo padre volesse avvicinarla
alla realtà del suo potere a piccoli passi. A sei anni il concetto di morte è
un’idea vaga e imprecisa e probabilmente il signor Halbritter desiderava che la
figlia mantenesse un rapporto equilibrato con il pensiero della fine. Suo
fratello più grande, inoltre, era morto da meno di due anni e a casa loro la
sua scomparsa aveva cambiato un po’ tutto. La parola stessa, “morte”, era stata
bandita dalla famiglia Halbritter. La trovata dei Sognanti doveva essere stata
una soluzione poetica e temporanea al problema.
Suo padre però non
le disse tutta la verità. E Adele imparò a sue spese che i Sognanti potevano
interagire fisicamente con l’ambiente dei vivi. Alcuni di loro potevano persino
fare del male. Intenzionalmente.
La morte, comunque, nominata o meno, continuò imperterrita a
far visita alla sua famiglia. Franco Halbritter subì un infarto fatale circa
due mesi dopo quella lezione sui Sognanti. Adele non lo rivide più. Dopo. E
dovette affrontare quella sua facoltà completamente sola. Non ne parlò mai
neanche con sua madre. La sua mente giovane ma intuitiva le suggerì sempre di
non farne parola con nessuno. Chi avrebbe potuto capire? Come avrebbero potuto
non fraintendere? Lo sguardo delle sue amiche mentre parlava con la piccola
Sognante era rimasto scolpito in maniera indelebile nella sua mente.
4
La casa in cui era sempre vissuta, al civico 231 di via della
Lungara, nel quartiere Trastevere, era una palazzina che si sviluppava su tre
piani ricavati da una struttura originaria del XVII secolo. L’edificio faceva
in realtà parte del più vasto complesso della splendida Villa Farnesina. Adele
abitava ed era proprietaria della parte della casa che si affacciava sulla
Lungara mentre la parte posteriore, che guardava al grande giardino che
circondava la Villa – ora di proprietà anch’essa dell’Accademia dei Lincei -
era stata abbandonata e murata da tempo. Nonostante ciò la parte di sua
proprietà era sempre molto grande. Sua madre le aveva raccontato che molti anni
prima Guglielmo Marconi in persona aveva affittato la loro abitazione e vi
aveva dimorato per un po’.
Adele utilizzava esclusivamente il piano terra e l’ultimo
piano della casa, dove dormiva e trascorreva gran parte delle sue giornate,
potendo contare complessivamente su 9 stanze e tre bagni, decisamente al di
sopra delle sue esigenze. Il piano terra ospitava un grande salotto, una cucina
enorme e altri due locali, tra cui uno studio fornito di una ricca biblioteca,
che teneva sempre chiusi. Il secondo piano, che in genere attraversava soltanto
quando saliva o scendeva (velocemente)
le ampie scale interne, era una teoria di stanze, chiuse da tempo, ai lati di
un corridoio in cui Adele non ricordava di aver messo piede da anni. Il tutto
era ancora in buone condizioni perché Maria, una collaboratrice a ore, si
occupava quotidianamente delle pulizie e di verificare le eventuali riparazioni
da far eseguire. La casa era stata una volta splendida, e di questa bellezza
conservava alcuni affreschi al secondo piano e stucchi e modanature preziose in
angoli inaspettati. Ma naturalmente un’essenza di abbandono e di una generale
trascuratezza sembrava trasudare dalle stesse mura. L’isolamento in cui Adele
aveva vissuto in tutti quegli anni aveva come infettato l’edificio e i suoi
ambienti. Anche illuminandola a giorno quella palazzina sarebbe sembrata buia.
Ad Adele questa
condizione, sua e della casa, stava bene. Non soffriva di solitudine, non
ambiva all’interazione sociale. Non avvertiva la mancanza di una compagnia
stabile e quotidiana forse perché non ne conosceva la natura. Non era stupida,
anche se a volte sapeva di aver bisogno di tempo per elaborare un’idea o
predisporre una strategia, che si trattasse di decidere cosa comprare per cena
o di quale colore scegliere le tende. Sapeva bene che la maggior parte delle
persone, là fuori, vivevano e si alimentavano di rapporti e connessioni, tra di
loro e con il resto del mondo. Amicizie, matrimoni, solidarietà sembravano il
mastice che manteneva vivo l’universo sociale. Ma queste interazioni, aveva
avuto modo di vedere, non implicavano necessariamente la felicità. Non le
sembrava, osservando gli altri, che la vita fosse più facile se affrontata in
compagnia. Anzi, i rapporti che gli altri costruivano intorno a sé, le pareva
producessero più dolore che serenità. C’erano fior di fiction e film a
testimoniarlo. E lei era una spettatrice affamata e attenta. E allora perché
avrebbe dovuto rinunciare alla sua studiata solitudine? In conclusione ad Adele
la sua vita piaceva. E anche se c’erano cose che le mancavano (il sesso,
qualcuno con cui condividere le risate davanti ai talk show del sabato sera,
una mano che le grattasse il prurito tra le scapole ) tutto sommato preferiva
che nulla mutasse.
Anche quella patina
di oscurità che gravava sulla casa, come un finissimo velo di sudario, non le
dava affatto fastidio.
Certo, c’era il
problema dei Sognanti. Ma quello, in qualche modo, pensava di averlo risolto.
Adele aveva sempre
avuto la certezza che quella prima chiacchierata di suo padre sui Sognanti
avrebbe dovuto essere la prefazione a un discorso molto più ampio. Una specie
di introduzione a un manuale di istruzioni che Franco Halbritter aveva
intenzione di farle studiare. Purtroppo il tempo gli era improvvisamente
mancato. Il dono, che probabilmente le era stato tramandato, era rimasto privo
di spiegazioni e s’era concretizzato in un mistero che Adele avrebbe imparato a
conoscere negli anni senza l’aiuto di nessuno. Suo padre, per lo meno, non era
diventato un Sognante, se n’era andato là dove vanno le anime che decidono di
non infestare le case o le persone, e Adele s’era dovuta raccapezzarsi da sola.
Non era stato facile.
Non ricordava, ad
esempio, il momento in cui aveva trovato la soluzione della porta. Le sembrava
di rammentare che era avvenuto guardando un film, tanti anni prima. Era ancora
una bambina. I Sognanti che all’inizio si erano manifestati quasi con timidezza
(la bambina che suo padre aveva cacciato e che non era più tornata, un uomo che
la guardava dalla finestra durante la notte, e la sua finestra era a venti
metri dal suolo, una bella donna che sembrava attenta a cosa sua madre
preparasse per cena, alla sera, e che le sorrideva soddisfatta) e che almeno
nei primi anni non avevano mai tentato di interagire con lei, col tempo s’erano fatti più audaci e più
fastidiosi. Adele pensava fosse per via di quella specie di potere che con la
maturità s’era rafforzato e come un radiofaro aveva iniziato a mandare segnali
sempre più forti. O forse tra i Morti – ché aveva capito da molto trattarsi di
questo, altro che persone che sognavano – c’era stato una specie di passaparola.
Oppure la spiegazione era ancora altrove, in una di quelle pagine del libro
delle istruzioni che suo padre non aveva avuto modo di consegnarle. Fatto sta
che, raggiunti i sedici anni d’età, i Sognanti affollavano letteralmente la sua
vita.
Si svegliava con
loro, andava a scuola camminando tra di loro, sbrigava le sue faccende sotto il
loro sguardo, mangiava e dormiva senza mai essere persa di vista dai loro
sguardi privi di espressione. Capitava che a volte li confondesse con i vivi.
Si mescolavano agli altri con facilità. Nessun tremolio o evanescenza che li
tradisse. Riusciva a capire di avere a che fare con uno di quei fantasmi solo
quando notava che nessun altro li vedeva.
Non poteva davvero interagire con loro. Ci aveva provato,
senza risultato. I suoi Sognanti non parlavano e quando lei cercava di
comunicare sembrava non capissero. Non la sentivano. Non avevano intenzione di
farsi sentire. Erano come pesci in un acquario in cui nuotava anche lei. Si
limitavano a seguirla, a girare per casa, a guardarla. Quasi sempre con
quell’aria assente. Raramente le indirizzavano un sorriso, un ghigno, una
linguaccia una volta.
Aveva anche tentato di documentarsi. Qualche libro di
spiritismo, riviste che trattavano di queste materie. Invano. Un po’ perché la
sua pigrizia mentale le impediva di concentrarsi seriamente su una materia così
controversa e complessa. Accidenti, esisteva una bibliografia talmente
sterminata e Adele, al secondo mattone su “Parapsicologia e Aldilà” aveva
capito che quella non era la strada giusta. E poi, la maggior parte di quelle
pubblicazioni parlavano di quanto fosse difficile per un medium o un sensitivo
riuscire a contattare con successo il mondo dei defunti. Facevano tante storie
per un po’ di ectoplasma spuntato dalla narice di quel tale o per un tavolino
che ballava come in un film di Walt Disney che a Adele veniva francamente da
ridere. No. Quei libri non parlavano dei Sognanti. Parlavano di trucchi e
illusioni. Nessuno possedeva una capacità pari alla sua.
Non le venne mai in
mente di parlarne con qualcun altro, di cercare aiuto da qualche parte. Quella
fu l’unica tentazione che non la tentò mai. Lo sguardo dei compagni di classe o
di quelli che, per un caso, l’avevano vista mentre tentava di parlare con un
Sognante o si scansava al suo passaggio era già abbastanza mortificante e
l’aveva condannata per i primi anni. Non avrebbe mai fatto l’errore di
confidarsi con chiunque. Su quel fronte era sola e sola sarebbe restata.
Col tempo decise di
lasciar perdere, di abituarsi all’idea che la sua vita privata non fosse poi
così privata. In fondo i Sognanti non sembravano volerle far male. La maggior
parte delle volte sembravano addirittura disinteressati a lei.
Poi qualcuno di
loro passò il limite. Tentò di contattarla. Goffamente. Come se anche loro
l’avessero considerata, sino ad allora, una seccatura da sopportare, e poi,
improvvisamente, qualcuno si fosse chiesto: ma chi è questa creatura qui? Posso
parlarle? Posso tentare di toccarla?
Qualche Sognante ci
provò.
Qualcuno ci riuscì.
Non fu piacevole.
A quel punto,
Adele, che non era tipo da spaventarsi, comprese che la situazione le poteva
sfuggire di mano. Sua madre, nel frattempo, era morta anche lei. E anche lei
s’era ben guardata di andarla a trovare come Sognante. D’altronde, anche da
viva, non è che si sperticasse in coccole e abbracci. Adesso Adele era rimasta
davvero sola. Per modo di dire. E doveva pensare a difendersi.
L’idea le venne
così, all’improvviso. Forse s’era addormentata sulla scena di un film, alla TV,
che trattava un argomento simile. Le pareva di ricordare qualcosa. Fu certa,
però, all’istante che quello poteva essere un tentativo serio. In fondo, se la
sua mente era in grado di vedere quei fantasmi forse poteva anche modificare,
in qualche modo, il loro comportamento. Aveva già provato a cacciarli, con
urla, strepiti, comandi mentali tanto
silenziosi quanto feroci. Ma era stato inutile. Forse la strada da percorrere
era un’altra.
E allora Adele
immaginò. Immaginò l’esistenza di quegli esseri, sul loro stesso piano. Li
immaginò come suo padre li aveva descritti. Sognatori che non sanno di sognare.
Che vivono in un sogno non loro. E allora, se questo è il mio sogno, sono io
che detto le regole. Sono io che costruisco il mondo.
Adele,
semplicemente, creò una porta. Non si limitò a pensarla. La fece proprio. Anche
se interamente all’interno della sua mente. Scelse il legno, una quercia
robusta che immaginò tra tante in un bosco dentro la sua testa. La sradicò, la
tagliò, la piallò, la toccò mentre si trasformava in quello che voleva. E poi
la modanò, curando ogni singolo intaglio, ogni linea e disegno. Quando la porta
fu pronta, cercò il pomello adatto. Puro ottone, un saliscendi elegante ma non
troppo chiassoso. E una chiave robusta, di quelle d’una volta. La scelse tra
molte. Nell’emporio che aveva nella testa non c’era limite alla fantasia.
Ci impiegò tre
giorni e tre notti, ma alla fine la porta fu pronta, così come la voleva lei,
bella e forte. Nessuno, vedendo quel capolavoro di falegnameria, avrebbe mai
pensato di forzarla. Era uno splendore. Ed era sicura.
Il resto fu facile.
Pensò a lei e ai Sognanti. Li pensò oltre quella porta, in una regione che non
conosceva e che non voleva conoscere. Là da dove provenivano. Nel posto che
spettava loro.
Li immaginò dietro
quella porta magnifica.
E poi la chiuse.
Con due mandate.
Con sua sorpresa,
il trucco funzionò. I Sognanti bussarono, scossero la porta, si arrabbiarono, la
minacciarono, la blandirono. La porta rimase chiusa. Adele provvide ogni giorno
a controllarla.
Certo, a volte
capitava che qualcuno di loro sgusciasse via, riuscisse ad aprire in qualche
modo la maniglia, nonostante le mandate di chiave che lei aveva dato. Era un
fatto raro. Ma poteva accadere. Come quella mattina, in cui la vecchia sporca
era riuscita in qualche modo ad eludere la sorveglianza della bella porta – ed
era una porta di vero massello, nessuna imitazione del legno – ed era uscita. A
meno che il fantasma della poveretta non provenisse da qualche altra parte.
Adele, infatti, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare di averla mai
vista prima. Eppure pensava di conoscere tutti i “suoi” Sognanti. Da dove
sbucava quella megera senza denti?
Certo, rifletté, se
la vecchia non proveniva dal gruppo imprigionato dietro la porta il fatto
avrebbe potuto essere preoccupante. Non aveva idea di cosa significasse, ma ne
percepiva l’anomalia. E tutto ciò che usciva dalla normalità poteva diventare
pericoloso.
Comunque fosse andata,
si consolò, adesso la vecchia Sognante era finita dietro la porta.
Perlomeno la
vecchiaccia avrebbe trovato compagnia.
5
Adele aveva sempre pensato – con un’ironia tutta sua – che il
campanello dell’ingresso fosse stato ideato per risvegliare i morti. Urlò, quel
pomeriggio, più che suonare e, emergendo da un colloso dormiveglia che sembrava
volerla tenere attaccata alla poltrona, Adele si domandò chi potesse accanirsi
con tanta insistenza a un citofono. Non era giornata di pulizie; una visita di
Maria non era prevista. Era tardi perché fosse il postino e pensò che avrebbe
essere soltanto uno di quegli invadenti rappresentanti di elettrodomestici che
attraversavano il quartiere come battitori in una caccia grossa. Lasciò quindi
suonare e cercò di riannodare il filo del programma che stava seguendo alla TV
prima che precipitasse in quel sonno impastato. Sky mandava in onda un drammone
alla Rosamund Pilcher, girato e recitato da legnosi tedeschi, non certo i più
adatti interpreti di britannici intrecci amorosi. Era giunta al momento in cui,
prima o poi, quel tipo di storie immancabilmente arrivava. Una scogliera in
Cornovaglia, lui e lei finalmente abbracciati e l’idea elettrizzante che da un
momento all’altro qualcuno di loro potesse precipitare.
Il campanello suonò
per la terza volta.
I venditori porta a
porta erano spesso invadenti. Adele non li sopportava e soprattutto non
sopportava la propria incapacità di cacciarli via una volta che avesse aperto e
li avesse lasciati parlare. Però ricordava un paio di occasioni in cui il
rappresentante di turno era un bell’uomo. Di una volta, in particolare, permaneva
nella sua memoria il sogno a occhi aperti che s’era concessa mentre il commesso
viaggiatore le spiegava il funzionamento eccezionale del Vorwerk Folletto che
le stava mostrando. Nella sua immaginazione le mani del tizio smettevano
improvvisamente di maneggiare l’aspirapolvere e iniziavano a frugarle tra le
gambe. Aveva sorriso inebetita a quell’uomo per tutto il tempo della visita,
anche se poi non aveva acquistato nulla. Aveva poi incamerato con cura quella
fantasia erotica, riponendola nello scomparto dei pensieri audaci. Uno scrigno
mentale cui teneva abbastanza, quasi quanto la porta dei Sognanti. Era una zona
della sua mente (e del suo corpo) che aveva imparato a sollecitare nei momenti
più solitari. Quelli in cui il desiderio fisico diventava improvvisamente
struggente, doloroso e inevitabile.
Alla fine decise di
andare ad aprire. Magari lo scomparto delle fantasie si sarebbe oggi arricchito
di una nuova eccitante esperienza.
Non erano
rappresentanti maschi. La delusione dovette trasparire con chiarezza dal suo
volto, perché una delle due donne che la guardava, ferma sulla soglia di casa,
si preoccupò.
- Si sente male?
Adele girò la testa
dall’una all’altra. Quella che aveva parlato era graziosa, molto giovane,
riccioli biondi che cadevano sulle spalle di un vestitino forse un po’ troppo
estivo. La sua compagna, decisamente più anziana, aveva i tratti marcati di una
straniera. Occhiali dalla montatura spessa e pupille minuscole che la misero a
disagio. Entrambe portavano dei libri che tenevano come fossero neonati.
- Cercate qualcuno?
La bionda rispose
con un’altra domanda:- Lei ha paura?
Adele non capì
subito.
La bionda sorrise.
– Ripeto, lei ha paura?
- Di cosa?
- Di quello che
accade nel mondo, per esempio. Ha paura della malvagità?
- Certo.
- Ha paura che
qualcosa di brutto possa capitarle? Ha paura di morire? Di essere uccisa?
Adele tentò,
debolmente, di chiudere la porta. Sorrideva perché non voleva sembrare
maleducata, ma aveva capito di aver sbagliato. Non avrebbe dovuto rispondere al
campanello.
- Non chiuda. Non è
di noi che deve aver paura… ma del mondo. Forse possiamo aiutarla!
- Mi dispiace. Non…
non ho tempo adesso…
Ma la donna le
impediva fisicamente di chiudere il portone. Era ritta sulla soglia, come
sull’attenti, sfoggiando il suo sorriso di marca.
- Se vuole possiamo
semplicemente lasciarle uno dei nostri opuscoli. – Le mostrò il materiale che
aveva in mano, offrendoglielo. Adele non si mosse e la donna alla fine tornò ad
abbassare le braccia, ritirando l’offerta. – Non vogliamo importunarla, ma
siamo nuove di questa zona e cercavamo la possibilità di conoscere i nostri
nuovi vicini.
Le indicò vagamente
una direzione, fuori da lì. – Abbiamo appena inaugurato un nuovo tempio, qui
nel quartiere. E volevamo invitarla a venirci a trovare… - Improvvisamente ci
riprovò e stavolta le infilò a forza, in mano, una rivista di poche pagine.
Sulla copertina, verde oliva, campeggiava il volto di Gesù. Un uomo si
sollevava dal sepolcro e Adele non capiva se vi era rappresentata la
resurrezione di Cristo o quella di Lazzaro.
- Va bene, -
mormorò, accostando la porta di un altro paio di centimetri. – Ci penserò. Grazie.
- Forse suo marito
è interessato alla nostra testimonianza, - disse la più vecchia. Non era
straniera. Aveva la voce priva di intonazione. Piatta come la sua espressione.
- Non sono sposata.
- Mi scusi, -
guardava dietro di lei, verso le scale. – Allora, forse le altre persone che
vivono in casa, qui con lei…
Adele stava per
risponderle ancora, quando ebbe la sensazione che la donna si riferisse a
qualcuno di preciso. Si voltò. Il pomeriggio inoltrato aveva consentito
nuovamente alle ombre di accamparsi in casa sua. Oltre a quelle, non c’era
nulla alle sue spalle. Ebbe però la sensazione che la donna con gli occhiali
qualcosa avesse visto.
- A chi si
riferisce? – le domandò.
La biondina
intervenne nervosamente, lanciando un’occhiataccia alla sua compagna. – Perdoni
la nostra invadenza… la mia consorella si riferiva a quell’uomo che era con
lei, sulle scale… Comunque non si preoccupi. Le lasciamo i nostri opuscoli e
lei ci pensi su…
Ah, ecco.
Adele aprì la
porta, all’improvviso, scostandosi. – No. A pensarci bene, non ho nulla da
fare. Possiamo parlare adesso, se volete.
E le fece passare.
6
Più tardi, interrogandosi, non riuscì a trovare una vera
buona ragione perché le avesse fatte entrare in casa. Si disse che era perché
aveva veramente voglia di parlare con qualcuno. Parlare davvero, non limitarsi
a uno scambio di battute prive di significato. Conversare. Cosa che non
avveniva da tanto tempo. O forse aveva accettato la loro visita perché, in
fondo, quei discorsi su Dio e la Bibbia e i Grandi Misteri dell’Universo le
interessavano davvero. C’era sempre un paragrafo, in quelle prediche, che
parlava della morte, e della morte Adele aveva desiderio di saperne il più
possibile. O forse era stata spicciola curiosità. Pericolosa curiosità. Alle
sue spalle doveva essersi manifestato un Sognante (quella porta cominciava a perdere
la sua efficacia, e forse c’era da preoccuparsi
davvero), e pareva che le due donne l’avessero visto. Era una novità.
Altri che sperimentavano le sue allucinazioni? Voleva sapere se c’era
possibilità che non fosse l’unica.
Nonostante ciò,
quando le ebbe fatte entrare provò la sensazione di aver compiuto un errore.
Le aveva fatte
accomodare nel salotto, accendendo un paio di luci dietro sinuose lampade a
stelo. Non s’arrischiò a illuminare tutta la stanza e le ombre continuarono a
sgusciare tra le gambe delle sedie e sotto i mobili in stile impero. Ma le
donne non parvero a disagio. S’erano sedute come se la loro vera abilità fosse
proprio quella: prendere possesso di ambienti altrui senza esitazione. D’altro
canto quelle due pretendevano di spacciare la Verità e quello era un lavoro che
solo con la totale assenza d’imbarazzo si portava a termine.
Parlava soprattutto
la biondina. Cianciava di argomenti che Adele faticava ad afferrare, ma
sembrava conoscere il fatto suo. Parlava del libero arbitrio, e del peccato
originale senza il quale vivremmo, adesso, in un luogo meraviglioso, senza
dolore né fame. E dell’infinito amore di Dio che non può permettere il male.
Proprio non può. Le sembravano le stesse cose che diceva il prete dal pulpito.
La sua collega
stava per lo più zitta, salvo quando decideva di rafforzare il discorso della
bionda con qualche citazione. “Ecclesiaste, capitolo 9, versetto 10”, diceva
all’improvviso. O “Deuteronomio, capitolo 30, versetti 19 e 20”. Annuendo con
la gravità necessaria al caso. Quando accadeva, Adele le lanciava un’occhiata
di falsa ammirazione a cui l’occhialuta rispondeva con la sua incapacità
espressiva. Poi la donna tornava a guardarsi intorno. Sembrava più interessata
alla casa che alla sua ospite. Indagava.
Adele chiese a un
tratto se volessero bere qualcosa.
- Oh!, -esclamò
l’instancabile parlatrice, - sarebbe un sollievo una bibita fresca!
Anche Adele sapeva
che la parola “bibita” non si usava più da qualche decennio.
Si alzò e andò
nella cucina a preparare qualcosa.
La parlatrice
continuò a intrattenerla, alzando lievemente il volume della voce.
- Forse ti stiamo
inondando di troppe informazioni e magari avresti bisogno di pensarci un po’ –
le urlò dal salotto.
- No, no, - mentì
Adele, urlando a sua volta e versando in tre bicchieri di Coca-Cola, ghiacciata
dal frigorifero. – M’interessa quello che dite… è che sono così ignorante in
certi argomenti!
- Ma no! – la donna fece un gesto nell’aria, con la mano, per
scacciare quell’idea assurda, mentre Adele rientrava e posava il vassoio con la
Coca su un basso tavolino. – Avresti solo bisogno di frequentare il tempio.
Magari adesso c’è qualche argomento che t’interessa in particolare... Qualcosa
che vorresti chiederci.
Adele si sedette,
col suo bicchiere gelato in mano. Un’immagine le esplose, improvvisamente,
nella testa. La porta, la sua porta. Non sembrava davvero chiusa.
- Allora? – la
esortò la bionda, sorseggiando la sua bevanda. Arricciò le labbra.
- Com’è fredda!
- Allora… allora… -
Adele finse di pensarci. – Allora, ecco. Cosa ne pensa Dio dei morti?
Le due testimoni si
scambiarono un’occhiata.
- I morti?
- Sì. Quella storia
dell’inferno e del paradiso. E’ lì che andiamo quando moriamo? Al catechismo ci
raccontavano qualcosa del genere.
La bionda sorrise,
rinfrancata. Era tornata su un terreno che le era congeniale.
- Non esiste nessun
inferno, perché Dio è amore. Il concetto stesso di tormento eterno disonora
Geova che non farebbe mai soffrire nessuno. E non esiste paradiso perché Dio
non giudica le anime. Neanche quelle che gli hanno disubbidito.
- Giovanni,
capitolo quattro versetto otto – disse l’occhialuta annuendo.
- Ti abbiamo
sorpreso?
- Un po’ - ammise
Adele oltre il bordo del suo bicchiere. La porta continuava a occupare i suoi
pensieri.
- Dio ci promette
un mondo pieno d’amore e privo di morte, se è questo che volevi sapere.. ma è
un mondo di là da venire. Se non fosse stato per il peccato originale commesso
da Adamo ed Eva, quel paradiso sarebbe la terra nella quale viviamo. Proprio
qui e proprio ora.
- Sarebbe bello, -
disse Adele. – Un mondo pieno di amore… e senza la morte?
- La morte è
l’afflizione che dobbiamo subire per colpa della coppia originale. Ma non devi
temerla!
- No?
- Ma no! – Le due
donne sorridevano. Il sorriso della matrona con gli occhiali non era per niente
rasserenante, però. Non pareva abituata a distendere le labbra se non per
citare la Bibbia.
- Ecclesiaste, capitolo
nove, versetto cinque – disse infatti.
- Salomone –citò a
sua volta la donna con i capelli biondi. – I morti non sono consci di nulla.
Capisci cosa significa?
Adele scosse la
testa. Quella dannata porta sembrava proprio aperta adesso. Vedeva il buio che
filtrava dallo stipite discostato.
- Ma è evidente,
cara. La morte è come un lungo sonno. Niente altro. Questo dice la Bibbia. Ecco
perché non dobbiamo temerla. Avresti paura di una bella dormita?
- Effettivamente
no.
- Ecco. Appunto. La
morte è solo un sonno senza dolore, senza sofferenze, senza preoccupazioni. Le
dottrine che insegnano altro non dicono il vero. Fraintendono. Dimenticano il
senso della Bibbia. L’insegnamento biblico non ammette obiezioni: quando
moriamo non ci siamo più. Non esiste anima, non esiste spirito immortale che
sopravviva al corpo.
- No?
- Assolutamente no.
Dio dice ad Adamo: Polvere sei e in polvere tornerai. Gen…
- Genesi, capitolo
tre, versetto diciannove – la interruppe la sodale che si guadagnò, finalmente,
un’occhiata gelida dalla bionda.
Adele scuoteva la
testa. – Non è molto confortante… - disse. – Un sonno eterno e senza sogni…
- Al contrario. E’
molto rassicurante. Ci chiediamo spesso cosa vi sia dopo la morte e se i nostri
cari soffrano. Sappiamo invece che i morti non soffrono. Non possono sentire
male e non possono farcene. Non hanno bisogno di noi o delle nostre preghiere.
Dormono… e basta.
- Non possono
comunicare con noi – aggiunse sorprendentemente l’altra donna. – E noi non
possiamo comunicare con loro.
- E’ molto
semplice, - disse la bionda. – E’… davvero tranquillizzante, non trovi Adele?
Ma la porta,
maledetta lei, stavolta era aperta davvero. Non c’era più solo un filo di
oscurità tra lo stipite e la maniglia. Ma un vero e proprio baratro. Da lì
sarebbe potuto uscire chiunque.
Adele si guardò
intorno, allarmata.
- Qualcosa non va?
– La bionda la fissava perplessa. La sua compagna, invece, non guardava nella
sua direzione. Ma oltre di lei. Un pallore inaspettato sulle sue labbra secche.
- C’è qualcuno – disse.
Adele non si voltò.
Voleva vedere l’espressione sui volti delle due donne. Si sorprese ad essere più incuriosita che
preoccupata.
- In casa non c’è
nessuno, - le informò. – Vivo sola.
- C’era un uomo,
sulle scale, prima, - dissentì la
bionda, aumentando leggermente tono e volume della voce.
- C’è qualcuno
anche adesso, - mormorò la più anziana, continuando a fissare un punto dietro
le spalle di Adele, verso le scale che portavano ai piani superiori.
La bionda guardò
nella stessa direzione, poi strinse le spalle in un gesto d’insofferenza. Lei
evidentemente non vedeva nulla, oltre al grumo di ombre che si addensavano
all’altezza del primo scalino. – Lei vive davvero da sola in una casa così
grande? – domandò, ignorando volutamente
la sua amica che continuava a fissare il vuoto.
Adele trovò tutto
ciò improvvisamente divertente.
- Ho ereditato la
casa da mamma… una casa vecchia… e mi hanno detto piena di fantasmi!
- Li ha mai visti?
– domandò l’occhialuta senza distogliere lo sguardo dal punto in cui s’era
incagliato.
- I fantasmi non
esistono!- proruppe la bionda, e lanciò saette in direzione della consorella.
Eresia. – Lo abbiamo ripetuto finora alla nostra ottima Adele. Quando moriamo
cessiamo di esistere, stabilisce Geova. La morte è il contrario della vita. Non
c’è nulla di noi che sopravvive alla morte del copro. Non esiste un’anima
immortale e dunque i morti non possono tornare a…
- … tormentarci, -
finì per lei la compagna, lo sguardo sempre annichilito, - Ecclesiaste capitolo
nove, versetti cinque, sei…
- … e dieci…
- … e dieci. Chi è quell’uomo che mi fissa?
Adele e la bionda
finalmente guardarono nella direzione in cui gli occhi sbarrati della donna si
perdevano in un’espressione di confusione e paura.
Era un uomo,
certamente, ma la figura non era così dettagliata come avveniva di solito. Era
alto, senza capelli, vestiva di scuro, e le fissava con due occhi neri. Altri
particolari non sembravano a disposizione dei presenti. Adele non riusciva a
capire se era per colpa della sua vista, della penombra che regnava nella
stanza o se il Sognante fosse proprio così. Grigio. Sfuocato. Anche se non del
tutto. Gli occhi erano sufficientemente dettagliati. E anche le mani, notò.
Aveva dita affusolate che teneva distese. Le unghie erano curate ma forse
troppo lunghe per un uomo. Nelle mani e negli occhi sembrava che si concentrasse
tutta la visibilità di quell’apparizione. Adele poteva notare le ciglia fini e
nerissime, e le vene che solcavano le sue nocche. Il resto della figura era più
evanescente. Incolore.
Qualcosa le disse
che quello non era un Sognante.
Era… un’altra cosa.
La bionda distolse
finalmente lo sguardo. – Insomma, di che uomo stai parlando? – Ma le tremava la
voce.
Adele e
l’occhialuta si scambiarono un messaggio silenzioso: sembrava che solo loro
potessero vedere l’apparizione.
- Davvero non lo
vedi? – le domandò l’amica.
- Non vedo cosa? La smetti per favore, mi stai
spaventando!
- E’ lì, davanti a
noi.
Adele si sporse
verso di loro: - Forse volete un altro
po’ di Coca?
Le due donne la
guardarono per la prima volta con quell’espressione che, in passato, Adele
aveva imparato a subire. Ma non le importava. Improvvisamente sentiva il
bisogno che quelle due se ne andassero. Non aveva paura di quello che sarebbe
successo dopo. Non temeva l’apparizione (anche se ammetteva che era un po’
diverso dalle altre volte, c’era qualcosa di brutto che emanava da quell’uomo,
qualcosa che non aveva mai avvertito prima) aveva timore di quello che
avrebbero potuto fare le due donne se fossero state colte dal panico. In casa
sua!
- Forse dovreste
andarvene, - suggerì.
La donna con gli
occhiali si alzò. Tremava ma sembrava più indignata che spaventata.
- Chi è quest’uomo?
– domandò ancora.
Anche la bionda si
alzò. – Forse ha ragione la nostra amica Adele… forse dovremmo andarcene..
- Chi è?
La bionda urlò: -
Cazzo non c’è nessuno! Non vedi che non c’è nessuno cazzo! – Poi si portò una mano alla bocca,
sorpresa lei per prima per la propria foga.
Adele si lasciò
scappare un risolino. L’occhialuta la fissò con ferocia:- Tu sai chi è… cos’è quella cosa? Dimmelo per amore di
Dio!
Fece un passo verso
di lei e Adele pensò che volesse picchiarla. La bionda la intercettò,
prendendola per un braccio: - Chiara la vuoi smettere! Sei impazzita?
Ah, Chiara. Chiara
vede i Sognanti, pensò Adele.
Chiara alitò sulla
faccia della compagna: - Lo hai visto anche tu, prima, mentre eravamo sulle
scale. Non dirmi che non l’hai visto!
La bionda, di cui
Adele avrebbe voluto sapere il nome, sembrò perplessa. In effetti qualcosa
doveva aver visto anche lei. Ma adesso no. Adesso la sua preoccupazione era la
consorella che sembrava impazzita.
La figura d’uomo,
intanto, restava immobile sul primo gradino della scala. Ma qualcosa accadeva
alle sue spalle. Adele se ne accorse e per la prima volta sentì anche lei se
non il morso della paura, il suo tocco leggero e deciso.
Il primo volto che
si affacciò era bianco, piccolo e grinzoso. Un viso di bambino vecchio. Denti
scoperti da un sorriso crudele. E occhi chiusi.
Anche Chiara lo
vide e urlò. La sua compagna sussultò, allontanandosi da lei come se avesse
scoperto che stava abbracciando un animale furioso.
- Tu sei il
demonio! – gridò la donna indicando Adele. E poi all’amica che la fissava
inorridita: - Non hai ancora capito? Siamo entrate nella casa del diavolo!
Si voltò, cercando
d’orientarsi, poi tirando con sé l’altra, si precipitò verso le scale che
portavano al piano terra, all’uscita.
Adele non tentò di
fermarle. Guardava la figura scura e la piccola faccia bianca che era apparsa
dietro le sue gambe. Non c’erano solo loro adesso. Il buio sembrava aver
generato nuovi mostri. Alle spalle dell’uomo scuro si affollavano altre anime.
Sembravano strisciare giù dalle scale. Silenziose. Contorte. Inerti. Grigie
come l’uomo che le aveva invitate.
7
Per quanto Adele aumentasse il volume della televisione ( la
voce della giornalista in diretta dalla striscia di Gaza tentava di raccontare
l’orrore della guerra alla sua interlocutrice in studio e ai telespettatori del
notiziario delle 20 ) non riusciva a sopprimere il brusio che veniva dal piano
di sotto. Forse, sospettava lei, perché i fantasmi non parlavano alle sue
orecchie ma direttamente al suo cervello. E così per quanto tentasse, ormai da
ore, di sovrastare quell’incomprensibile bisbigliare con il rumore dei propri
pensieri o, più banalmente, con l’audio della TV, si rendeva conto pian piano
che era impresa impossibile. I morti non parlavano. Non lo facevano mai. Ma il
frastuono delle loro anime era davvero insopportabile.
Per la prima volta, Adele si trovava davanti a fatti nuovi
che non sapeva come affrontate.
La paura dei
Sognanti era scomparsa da anni. Sin da bambina aveva imparato a convivere con
quella dannazione, all’inizio versando lacrime di vero terrore nel buio della
sua cameretta (perché sua mamma proibiva di tenere accese le luci, la notte,
fossero pure quelle di un’abat jour infantile), mentre figure di uomini o di
donne o di bambini silenziosi la osservavano dal fondo del letto, poi
convincendosi che le uniche parole lasciatele in eredità da suo padre
corrispondessero a verità. I Sognanti non possono toccarti, non possono farti
del male. Ma era stata comunque dura. Alla paura era subentrata, col tempo, la
rassegnazione. Infine l’indifferenza. La creazione della Porta e della Maniglia
avevano fatto il resto. Non senza qualche soddisfazione. Chiuderli dentro era
il massimo del divertimento in certe giornate deprimenti e cupe.
Adesso,
all’improvviso, tutto era stato rimesso in gioco. Ed era tornata la paura. O un
sentimento che le somigliava. Non sapeva cosa pensare di quello che provava, in
realtà. La figura di uomo – sempre nero e offuscato, alto, calvo, gli occhi
fissi nei suoi – era di per sé inquietante. Era preoccupante che non capisse
cosa volesse. Per la prima volta si domandava cosa veramente pretendessero
quegli spiriti e se c’era qualcosa che potesse fare, a parte tentare – ormai
vanamente – di ricacciarli dietro la porta di quercia.
Ora il notiziario
aveva lasciato il posto a qualche tipo di documentario raffazzonato con vecchi
spezzoni di varietà. Una tristezza infinita che Adele soppresse cambiando
spietatamente canale. Trovò un network satellitare che qualche volta
trasmetteva programmi interessanti. Cercò di non sentire i lamenti che
provenivano dal basso e sperò di incocciare in un sonno riparatore.
I fantasmi s’erano
concentrati, stranamente, nel piano di mezzo della sua casa, là dove non
metteva piede da anni, forse vagamente consapevole che in quel corridoio buio e
in quelle camere inutilizzate e vuote il potere dei Sognanti si facesse più
forte. Aveva sempre evitato di fermarsi in quelle stanze, a cui solo Maria
accedeva per le pulizie, e soltanto adesso se ne chiedeva la ragione. Sì, la
casa era enorme, per lei, ma avrebbe potuto chiudere il piano superiore, invece
che creare quella specie di vita a triplo strato. Il primo e il terzo piano
invasi dalla luce e dalla vita, e quel piano di mezzo sospeso tra l’abbandono e
l’oscurità. E adesso lì s’erano insediati i Sognanti sfuggiti alla sua Porta:
il tizio alto e misterioso e tutti quegli altri che l’avevano seguito.
Mentre si rifugiava nella sua stanza da letto, Adele ne aveva
contati almeno sei, ma non dubitava fossero di più. Li aveva solo intravisti,
per la verità, ma le era bastato. Teste enormi su corpi sgraziati, deformità,
arti dinoccolati e troppo corti o troppo lunghi. Mostri. Niente a che vedere
con le creature che avevano infestato la sua vita negli ultimi trent’anni.
Questi appartenevano a una razza diversa.
Questi non erano
Sognanti. Ma spiriti cattivi.
La domanda tornava
a vibrarle nella testa. Perché erano usciti adesso allo scoperto? Cosa volevano
da lei?
Intanto, per
qualche ragione, non avevano abbandonato le scale e quel maledetto piano di
mezzo. Lei li aveva solo sfiorati, fuggendo in camera sua, dopo che le due
testimoni religiose erano andate via. Dietro la porta della sua camera – reale
ma meno rassicurante di quell’altra sepolta nella cantina della sua mente –li
aveva sentiti ammassarsi ai piedi delle scale. E poi era iniziata quella specie
di litania. Non parole vere, da udire con i propri timpani. Ma un borbottio
psichico. Un grattare alle pareti della sua coscienza che prima o poi l’avrebbe
fatta impazzire.
Andate via, pensò. Andate via, per piacere.
Sullo schermo della
TV apparve l’annuncio del programma che stava per seguire.
RESTATE CON NOI
FRA UN MINUTO TORNA
GHOST CHRONICLES
CON DAVID TOWNSEND
Rimase sbalordita.
Piacevolmente, perché era uno dei suoi programmi preferiti. Ma colta
dall’aspetto comico della questione. Tra poco sarebbe andato in onda il famoso
show di David Townsend, l’uomo che andava a caccia di fantasmi in tutta
l’America.
Mentre i suoi, di
fantasmi, grattavano inquieti fuori della porta.
8
Mi hanno assicurato che la tua casa è infestata, Adele.
Non lo so, David.
Davvero, non so cosa dire…
Non devi dire
nulla. Basta che tu stia vicino a me. Così. Più vicino, honey, stai attaccata al mio braccio come fosse la cosa più
importante della tua vita. Poi stringi forte e non perdere mai la presa. Puoi
farlo per me, honey?
Oh, sì, posso farlo
David. Mi piace quando mi chiami honey!
Lo so. Sono
americano. Adesso pensiamo a non farci male. Mi dicono che le presenze in
questa casa siano malevole. Spaventano le persone. Forse possono fare del male…
Oh, no. David. Io
non credo. Cioè, non è mai accaduto prima… non mi è mai successo di…
Ma tu ti fidi di
me, Adele?
Oh Dio… sì… da
morire…
E allora permettimi
di non sottovalutare la questione. Due donne sono state terrorizzate ieri da
alcuni… spiriti malvagi… così li hanno definiti…
Ah! Quelle due,
dici? Ma erano solo due… due rompicoglioni, David!
(David ride divertito)
Scusami. Non dico
parolacce, in genere.
Non importa, honey. Intanto vediamo di capirci
qualcosa. Sistemo i miei apparecchi e poi vediamo se riusciamo a evocare uno di
quei fantasmi.
Va bene.
(David si occupa dei suoi apparecchi. Sistema
un paio di telecamere a raggi infrarossi. Poi accende e sintonizza un qualche
tipo di marchingegno che Adele gli ha visto utilizzare nel suo programma. E’
così emozionante starlo a guardare da vicino. Partecipare con lui a una delle
sue famose cacce al fantasma! E in casa sua per giunta!)
Questo pensiero la
distrae. C’è qualcosa che non torna. David Townsend è nella sua camera da letto
e sta cercando di individuare qualche presenza disincarnata, come ama dire lui,
un segno d’infestazione, una testimonianza di vita dall’aldilà. Ma non funziona
così. Non a casa di Adele, perlomeno. Lei lo sa. Lui no. Lui è bravo (é anche
bello, se per questo) ma il massimo che riesce a catturare nei suoi programmi
televisivi è qualche ombra fugace, un sospiro smorzato al registratore, un
battito che potrebbe appartenere a chiunque e a qualunque cosa. A casa
Halbritter le cose vanno diversamente. Qui ci sono i Sognanti. Qui le presenze
sono tante, troppe, e affollano le scale e le camere vuote dell’intero
edificio. Mormorano, nel buio, con voci che non sono voci. Grattano alla porta,
con unghie che non sono unghie. E non si fanno fotografare dagli apparecchi
sofisticati di un qualsiasi acchiappa-fantasmi. No. Loro si fanno vedere (e
sentire) solo dai prescelti.
Ma prescelti per
cosa?
E poi adesso, le
cose sono cambiate. C’è un Uomo Grigio, laggiù, sull’ultimo gradino. E guarda
in alto. Guarda verso di loro, anche attraverso le mura che non li proteggono.
Non possono proteggerli.
E quell’Uomo, chiunque
sia, ha deciso di fare qualcosa. Cosa? Non è dato sapere. Però sta salendo
adesso, lentamente, un gradino alla volta. Adele lo sa, lo avverte (e lo
avvertono anche le altre anime irrequiete, le sente mentre fremono, e sbattono,
e saltano impazienti, e aprono bocche, e urlano, e lo seguono, perché lui è…)
Sei pronta, honey? Spegniamo le luci?
Oh, no, David. Non
sono pronta. Non spegniamo le luci.
(Ma David non la sente)
Non aver paura,
cara. Io sono esperto in queste cose e so cosa fare. Come ti ho detto, tu stai
vicino a me, stringimi, stringimi forte, e non aver timore. Lo spettacolo sta
per iniziare.
No, David, non
farlo, no, no, NO!
(Adele a questo punto si rende conto che sta
sognando. E la sua voce non esce come dovrebbe. Ma è lo stesso. Non cambierebbe
nulla anche se potesse urlare. L’Uomo Grigio arriva. L’Uomo Grigio bussa)
9
I suoi occhi aperti le dissero che era sveglia. La sua mente,
benché annebbiata, le confermò che aveva smesso di sognare. Eppure era come
stesse ancora dormendo.
L’Uomo Grigio
bussava.
E nel contempo era
in piedi, nell’angolo della stanza intento a fissarla.
- Oddio mio! –
esclamò, tirandosi a sedere sul letto e combattendo contro un improvviso
attacco di asfissia. Lottò per alcuni interminabili secondi contro l’assenza di
ossigeno, col petto che s’infiammava e gli occhi che premevano per uscire dalle
orbite e scoppiargli in volto. Poi riuscì a ritrovare la strada. L’aria tornò a
inondarle i polmoni e Adele si ritrovò a tossire e a sputare spruzzi di saliva
fra le lenzuola disfatte.
Nell’angolo, lì
dove la figura la guardava, restava ancora uno scampolo di oscurità. Che si
affrettò a evaporare.
Ma lui c’era, fino
a pochi istanti prima. C’era!
Il sogno in cui era
stata presa continuava ad artigliarla. Finché non capì che il suono che
sentiva, non era il bussare lugubre dell’Uomo Grigio che voleva entrare nella
sua camera, ma il campanello di casa.
Squillava
insistente. Qualcuno si stava attaccando a quel pulsante.
La TV era ancora
accesa, anche se l’audio era al minimo. Una giornalista intervistava alcuni
politici. Sorridevano tutti probabilmente per qualche battuta. L’ultima cosa
che ricordava prima d’addormentarsi era il programma di David Townsend. Ecco
perché l’aveva sognato.
Spense la
televisione, mise i piedi nudi a terra e indossò l’accappatoio che teneva
sempre accanto al letto, pronto per la doccia mattutina. Dal piano di sotto
continuavano a suonare al campanello e sembrava non avrebbero desistito
facilmente.
Uscì dalla sua
stanza, scalza, cautamente, aspettandosi di trovarsi di fronte l’Uomo Grigio o
qualcuno dei suoi freaks dalla faccia
bianca. Il sole filtrava dai mille interstizi di un edificio fin troppo vecchio
e malato e come sempre giocava con le ombre e con le forme della casa. Adele si
affacciò dalla cima delle scale. Il piano di mezzo era, come sempre, più buio
degli altri ambienti. Per la prima volta trovò inquietante attraversarlo.
Chiuse gli occhi.
Controllò la porta.
Sembrava serrata.
La maniglia risplendeva come l’avesse appena lucidata. Ma non ricordava di aver
fatto rientrare quelle creature nel posto nero in cui meritavano di stare.
Anche se la porta era chiusa non voleva dire che i Sognanti fossero rinchiusi
là dietro.
Questi non sono Sognanti. Toglitelo dalla
testa, cara, prima che puoi se non vuoi farti davvero male. Questi non vengono
dal posto in cui stanno i tuoi fantasmi innocui. Questi sono di un’altra razza!
Il campanello
iniziò a suonare senza interruzioni. Adele aprì gli occhi e affrontò le scale
di casa. Quel suono la faceva impazzire. Quando attraversò il piano di mezzo
avvertì nettamente un brivido lungo la schiena e si sforzò per non voltarsi.
Non voleva dare questa brutta abitudine al buio. Immaginò però mani con dita
lunghe e fredde afferrarle improvvisamente un braccio. Raggiunse il piano terra
senza incidenti. Ma tremava.
Si accostò alla
porta e cercò di superare il frastuono di quel campanello maledetto. Era la
seconda volta in due giorni. La sua intimità stava cadendo in pezzi.
- Chi è? – urlò.
Il suono s’interruppe.
- Polizia, signora.
Apre gentilmente questa cazzo di porta. Per piacere?
Socchiuse l’uscio,
incuriosita da quel misto di volgarità e irritazione. Sulla strada, due uomini.
Uno sui cinquanta, capelli brizzolati e un viso su cui si distendevano noia e
rassegnazione in egual misura. L’altro decisamente più giovane, capelli troppo
lunghi e troppo spettinati. Ma un volto interessante. Si sarebbe aspettata che
fosse stato il più vecchio a parlare, ma invece prese la parola quello giovane:
- Mi scusi, ma è un’ora che stiamo attaccati a questo campanello!
Adele non comprese
subito. Poi immaginò che l’uomo si stesse scusando, forse, per aver usato la
parola “cazzo”.
- Dormivo, -
spiegò, anche se non c’era niente da spiegare. I due uomini guardarono entrambi
l’ora al proprio orologio, come se fosse necessario controllare un alibi. –
Ieri sera sono stata poco bene – aggiunse, e anche di questa informazione
sapeva che non c’era francamente bisogno.
Il più anziano
finalmente le mostrò un tesserino.
- Siamo del
distretto di zona, - le spiegò con un tono di voce più ragionevole di
quell’altro, - commissariato Trastevere, e avremmo bisogno di parlarle.
- E’ successo
qualcosa? – domandò. Non aveva idea del perché fossero da lei.
- Parliamo qui?
- Volete entrare?
- Solo se non
disturbiamo.
Il giovane sembrava
più impaziente e scalpitava sulla strada. Ma Adele colse anche il suo sguardo.
Si accorse che l’accappatoio che indossava lasciava intravedere qualcosa di più
del consentito, ma non ebbe coraggio di stringere la cintura alla vita. Le
parve troppo ostentato come gesto. Sarebbe stato come sottolineare il fatto che
sotto fosse nuda. Però si fece da parte per farli passare. Le sembrò di vivere
un deja vu. Le due testimoni di Geova, ieri sera. E adesso due poliziotti.
Erano più di quanti avessero visitato la sua casa negli ultimi due o tre anni.
D’istinto lanciò un’occhiata alle scale. Nessuno. Solo la luce del giorno che
gocciolava sui gradini antichi.
Li precedette,
sentendo lo sguardo del poliziotto più giovane su di sé. Il fremito che avvertì
tra le gambe le parve un brutto segnale. Si sentì più nuda e più esposta di
quanto in realtà non fosse. E non aveva ancora consumato la sua doccia. Né si
guardava allo specchio dal giorno prima. Una terribile mancanza. Un’afflizione.
Era accettabile? Le occhiate di quell’uomo dicevano di sì. Ma cosa vedevano
realmente quei due uomini sulla sua faccia o nel suo corpo? Segni? Cose brutte
o cose belle?
Questi due non
erano come le stupide del giorno prima. Questi erano pericolosi. Potevano
vedere al di là del suo aspetto. Potevano guardarla dentro.
Li condusse in
salotto dove i due, in piedi, non nascosero la loro sgraziata curiosità.
Osservarono l’ambiente. Con calma. Come se lo stessero studiando.
Il più anziano, alla
fine, le sorrise – Scusi la nostra invasione. Sono l’ispettore Carboni, questo
è l’agente Serra. Vorremmo scambiare solo due parole… avere qualche
informazione…
- Lei qui ci vive
da sola? – domandò l’agente Serra, interrompendo il superiore, il quale continuò
però a sorridere, guardandola. Solo la piega delle sue labbra svelava
l’irritazione per l’irruenza del suo collega.
- Vivo da sola.
- Non è sposata?
Adele piantò i suoi
occhi in quelli dell’uomo. – No.
Serra sostenne il
suo sguardo ma arrossì lievemente.
L’ispettore tentò
di riprendere in mano la situazione: - Ci perdoni, ma una persona ha presentato
un esposto nei suoi confronti.
- Un esposto?
- Sì. Be’
effettivamente voleva denunciarla… ma non c’erano estremi per una denuncia…
- Per adesso… -
precisò minacciosamente l’agente Serra.
- Una denuncia?
- … e quindi
abbiamo raccolto un esposto. Un atto dovuto.
- Contro di me?
- Conosce la
signora Chiara Innocenti?
Adele scosse la
testa.
- E tale…? – guardò
Serra.
- Ilaria Bianchi –
disse il collega.
- Ecco.
- No. Chi sono?
- Due signore che
ieri sono state in casa sua, secondo il loro racconto. Invitate in virtù della
loro missione… di fede. E sono state molestate… secondo il loro racconto…
Adele sorrise. –
Oh, quelle.
- Quelle.
Indicò le due
poltroncine sulle quali, meno di dodici ore prima, le signore Chiara Innocenti
e Ilaria Bianchi avevano posto le proprie terga, sorseggiando Coca Cola, prima
di essere molestate da alcuni dei fantasmi che infestavano la sua casa (secondo
il loro racconto).
– Volete sedervi (anche
voi)?
I due uomini si
accomodarono sulle stesse poltrone.
- Qualcosa da bere?
O è vero che in servizio non potete?
L’ispettore scosse
la testa: - Ci sbrigheremo.
Adele si accomodò
sul divanetto di fronte alle poltrone, velluto rosso stinto ma pulito. L’orlo
dell’accappatoio salì sopra il ginocchio e lo sguardo dell’agente Serra non si
scollò dalla sua pelle forse troppo bianca. Probabilmente lo disgusto, pensò
lei. Si sa che il disgusto affascina.
-Dunque, signora Halbritter
– l’ispettore Carboni richiamò la sua attenzione. – I fatti sono semplici e noi
ci limitiamo a verificare qualche dato. Poi lei potrà, se vuole, presentare un
contro-esposto o una querela.
- Va bene.
- Voglio dire, nel
caso che la versione delle due signore risulti falsa e quindi diffamatoria.
- Va bene.
- Dunque… le due
esponenti… anzi, la sola Innocenti, perché l’esposto è a sua firma…
- Quale delle due?
- Come?
- Chi è delle due
la signora Innocenti? Quella con gli occhiali?
Carboni sembrò
perplesso. – Io non lo so… non ero presente alla redazione del verbale…
- Sì. Quella con
gli occhiali. La più vecchia! – disse l’agente Serra.
- Oh, - Adele
sorrise. E incredibilmente le sorrise anche lui. Sembrava aver dismesso la
maschera da sbirro rude e si godeva lo spettacolo del suo accappatoio che non
ce la faceva a restare chiuso. Quel ginocchio che prendeva aria. Quel principio
di coscia. Chissà cosa pensava il poliziotto.
- Comunque, -
riprese l’ispettore, - è stata solo una delle due a firmare l’esposto perché
effettivamente le molestie si sarebbero dirette solo verso di lei.
- Ma quali
molestie? Io le avrei molestate? –
Adele immaginava cosa le due avessero scritto nella loro denuncia. Ma voleva
sentirselo dire da quei due uomini. Dalla sua bocca la parola fantasma non
sarebbe mai uscita. Non voleva essere presa per matta.
L’ispettore si
sporse verso di lei: - C’era un uomo, ieri, qui da lei, signora Halbritter?
Perché la signora Innocenti avrebbe visto un uomo… che le… hmm… mostrava le sue
parti intime…
- E si toccava, -
aggiunse l’agente Serra, senza spegnere il suo sorriso. Un bel sorriso per la
verità. Labbra importanti e denti bianchi. Adele adorava le dentature curate.
- Ha capito quello
che le ho detto, signora Halbritter? – disse l’ispettore.
- Certo. Sì. – Ah,
quei denti così dritti e candidi. – Ma io vivo sola, non c’è nessuno in questa
casa oltre a me. Le due signore devono essersi sbagliate.
E la cosa strana
era che lei non aveva visto l’Uomo Grigio fare quelle brutte cose. Forse era
stata l’immaginazione della signora Chiara Innocenti a fare il resto. O quel
fantasma appariva a ognuno in maniera diversa.
- Nessun uomo, è
sicura? – insisteva l’ispettore. - Voglio dire… un amico che è venuto a
trovarla.. un parente che ieri passava di qui…
- Non ho famiglia.
E non ho amici.
Carboni sembrò
riflettere su quella dichiarazione che avrebbe potuto sembrare patetica se
Adele non l’avesse pronunciata con totale serenità. Tornò a guardarsi
rapidamente intorno. Forse cercava tracce di presenze maschili.
L’agente Serra
sembrava invece divertirsi. – Tutta sola in questa casa così grande?
- Sì. Tre volte a
settimana c’è una donna che mi aiuta nelle pulizie. E Carlo qualche volta che
aggiusta le cose rotte…
- Ah, Carlo! –
esclamò l’ispettore. – Forse c’era lui, ieri!
- Oh no, non vedo
Carlo da un paio di mesi. Ieri ero sola, ispettore. E ricordo la visita di
quelle due signore… un po’ strane mi sono sembrate… forse si sono sbagliate
nell’indicare questa casa? So che vanno di porta in porta a parlare con la
gente. Parlano con tante persone.
- Effettivamente, -
Carboni rifletteva.
- E poi, mi scusi.
Che vuol dire che quell’uomo ha mostrato loro le parti intime? Si è denudato?
-Praticamente.
- E lo ha visto una
sola di loro?
- Così raccontano.
- E sarebbe
avvenuto qui. Con me presente?
- Facciamo così, -
Carboni si batté una mano sulla coscia. Sembrava aver preso una decisione. –
Lei, appena può, viene al distretto. Le leggiamo l’esposto nel dettaglio, così
come prevede la legge. Lei presenta le sue obiezioni. Le mettiamo per iscritto.
E la finiamo là.
- Va bene.
- Adesso la
generalizziamo compiutamente e poi non la disturbiamo più.
- Va bene.
- Può darci un suo
documento d’identità?
- Certo. – Adele si
alzò. – Vado a prenderlo. E’ di sopra, in camera da letto.
I due uomini si
alzarono con lei e l’ispettore le fece un cenno d’assenso col capo.
Mentre Adele saliva
le scale, provò un brivido gelido lungo la schiena. Non per i fantasmi.
Avvertiva i due poliziotti che la osservavano. Forse sbirciavano le sue gambe
che fuoriuscivano da quel maledetto accappatoio troppo corto e troppo vecchio.
Ma ormai non poteva farci niente. E poi stavano per andarsene.
Attraversò il piano
oscuro senza neanche sentirsi minacciata. I Sognanti e l’Uomo Grigio, ovunque
fossero, adesso non erano lì.
Il portadocumenti
era nel primo cassetto di un settimino del diciottesimo secolo che secondo
quanto le aveva detto sua madre era appartenuto proprio a Guglielmo Marconi nel
periodo in cui aveva abitato là. L’aveva lasciato quando era andato via.
Marconi tornava spesso nei racconti della mamma che diceva di averlo
conosciuta, da piccola. Aveva diretto l’accademia, proprio davanti casa.
C’era stato anche
un uomo che si era interessato alla casa e al periodo in cui Marconi vi aveva
vissuto. Diceva che era per un libro che stava scrivendo. Quando era successo?
Qualche mese prima. Perché aveva un ricordo così sbiadito di quel tizio e delle
sue domande? Era tutto un po’ offuscato, come facesse parte di un sogno.
Non si accorse
della presenza alle sue spalle finché non ne vide l’ombra stagliarsi contro la
parete. Si voltò, già sapendo chi si sarebbe trovata davanti, mentre il cuore
le accelerava in petto.
L’agente Serra le
sorrideva con il suo sorriso irresistibile, a meno di venti centimetri da lei.
- Mi scusi, non
volevo spaventarla. Ma l’ispettore vuole che dia una controllata. Sa, se lei
nascondesse un uomo e noi non ce ne accorgessimo, faremmo una bella figura di
merda! Dopo quello stupido esposto, poi!
Adele non rispose.
Aveva ancora il portadocumenti in mano e non riusciva a distogliere lo sguardo
dalle labbra del poliziotto. Le venne in mente Antonio mentre mangiava la sua
uva. Il succo rossastro che gocciolava osceno dalla sua bocca in movimento.
Quell’immagine l’aveva disgustata. Adesso però le labbra dell’uomo che aveva
davanti non le ispiravano repulsione. Per niente.
- Che donne
stupide!
- Come? – Le s’era
chiusa la gola e faticava a rispondere.
- Quelle due… donne
stupide. Metterla nei guai senza un motivo!
- Sono nei guai?
- Eh, forse…
E si fece più
vicino.
- E’ una casa
grande, - commentò l’agente Serra, che con il mento ormai le sfiorava il naso.
– E’ immensa. Potrebbe nascondere una decina di uomini e forse non li
troveremmo mai!
- Io… sono sola… -
balbettò lei.
- No. Adesso no.
Adesso ci sono io con lei…
- Sì. E’ vero.
Gli occhi dell’uomo
si spostarono da destra a sinistra. Forse non dimenticava mai di essere un
poliziotto. Forse controllava la situazione. Adele era rapita dai suoi modi.
Avrebbe dovuto dirgli di uscire. Ma non lo fece. Perché avrebbe dovuto? Era un
agente di polizia. Era la Legge e l’Ordine. Era…
Lui sollevò la mano
destra, scostò l’orlo dell’accappatoio, e la posò sul suo seno. Adele rimase
immobile, mordendosi il labbro. Sentì le dita di lui sulla pelle. Il capezzolo
le divenne subito duro. E qualcosa si mosse dentro di lei, tra le sue gambe.
Qualcosa di concreto e vivo, indipendente da lei. Il desiderio che diventava un
animale vivo e si faceva nervoso, spasmodico.
- Non ti dispiace?
– le domandò lui, avvicinando le labbra alle sue e guardandola negli occhi.
Odore di sigarette. Dentifricio. Eccitazione.
Adele socchiuse gli
occhi e aprì la bocca. Lui la raggiunse. Aveva una lingua aspra. E tutta quella
saliva. Quasi la soffocava.
Adele mugolò.
- Non fare casino,
- disse lui.
Poi le aprì del
tutto l’accappatoio. Lei lasciò fare. Era completamente priva di forze. Sentiva
i muscoli liquefarsi, le gambe cedere. E il cuore batteva così forte che lui
l’avrebbe sentito. E le avrebbe ripetuto “non fare casino”.
Non ne farò.
La schiacciò contro
il mobile di Guglielmo Marconi. La mano destra non le mollava il seno. Anzi
stringeva così forte da farle male.
La mano sinistra la
accarezzò giù, tra le cosce.
- Cazzo, - esclamò lui
senza smettere di baciarla, tanto che le parole uscirono gonfie e distorte, -
cazzo se c’hai voglia!
Capì cosa voleva
dire. Non poteva impedire alla sua fica di bagnarsi. Non poteva nascondere la
sua eccitazione.
Mentre lui la
pilotava verso il letto (e pilotare era il termine giusto, perché Adele si
sentiva proprio come un’imbarcazione in alto mare, priva di controllo e alla
mercé di onde alte e furiose) pensò ancora al proprio aspetto e a quello che
lui avrebbe pensato di lei. Non del fatto che si stesse lasciando andare – di
questo non gliene importava nulla – ma cosa avrebbe pensato del suo sapore?
Come avrebbe trovato l’odore della sua pelle? Gli sarebbe piaciuto davvero
entrare dentro di lei? Scoparla. Quella era la parola. Scoparla sarebbe stato
abbastanza bello per lui? Non voleva deluderlo. Non voleva deludere nessuno.
Stava ancora
pensando a questo quando lo sentì penetrare. Esplose tutto, troppo velocemente,
troppo intensamente.
10
Mentre l’agente Serra si muoveva sopra e dentro di lei, silenzioso
a parte quel basso ringhiare che gli fuoriusciva dai denti stretti, Adele
apriva e chiudeva gli occhi. Lo faceva assecondando il ritmo di lui. Il suo
pene spingeva e le palpebre si sollevavano, gli occhi sbarrati a contenere il
piacere. Il suo pene scivolava indietro, e le palpebre si chiudevano,
pregustando la nuova spinta in arrivo. Le veniva così. Aprire e chiudere gli
occhi. Entrare e uscire dal piacere. Per effetto del movimento, quindi, la
visione della stanza, intorno a loro, sfarfallava. Come i frame di un vecchio
film in superotto. Il soffitto bianco a cassettoni. Poi il buio. Ancora il
soffitto. E il buio. Le pareti bianche con i quadri degli impressionisti che
sua madre amava tanto. Il buio. Le pareti.
Il buio.
L’Uomo Grigio.
Dietro le spalle
del suo amante. In piedi. Sopra di loro.
Il buio.
L’Uomo Grigio.
Ancora l’Uomo
Grigio.
Adele aprì la
bocca, per urlare. Gridargli di andar via. Che non era giusto. Quello era il suo momento. Quello era il suo uomo, che la scopava, e lui e tutti
gli spiriti che albergavano in casa sua, fuori o dietro la porta di quercia non
dovevano permettersi. Non dovevano stare lì. NON DOVEVANO PERMETTERSI!
L’agente Serra non
si accorse di nulla e quando la guardò in faccia e la vide rossa e corrucciata
fraintese e sorrise di compiacimento.
- Ti piace? – le
domandò, farfugliando per lo sforzo, inondandola di spruzzi di saliva caldi. –
Ti piace?
Ma Adele non si
occupava più di lui. Fissava ormai senza battere le palpebre la figura alle sue
spalle. Gli occhi nerissimi. E adesso anche un altro particolare si metteva a
fuoco nella generale indeterminatezza dell’apparizione. La sua bocca. Carnosa.
Molle. Non come quella dell’agente Serra, però. Questa era una bocca che non
era fatta per baciare. I suoi denti non erano bianchi e puri.
L’Uomo Grigio non
era solo. Sotto il peso non da poco del suo amante, bagnata del sudore che le
pioveva addosso in gocce salate, Adele faceva fatica a voltare la testa. Ma li
vedeva lo stesso. Si tenevano a distanza, ai margini del suo campo visivo, come
spaventati. E allo stesso tempo eccitati dall’amplesso che si consumava sotto i
loro sguardi morti.
Erano tanti. Troppi, pensò lei. Non più Sognanti,
indifferenti alla vita e ottusi, sostanzialmente innocui. Ma rapaci facce, dita
inquiete, corpi solo abbozzati eppure vibranti di energia.
L’Uomo Grigio li
attirava, capì lei. L’Uomo Grigio si alimentava della loro forza.
Tornò a guardarlo e
lo vide avvicinarsi ancora, chinare la testa informe su di loro, come un
entomologo curioso che osservi l’accoppiamento di due scarafaggi. Così vicino.
Così attratto da loro.
Adele aprì la bocca
per urlare, avvertire del pericolo, ma proprio in quel momento l’uomo che la
stava penetrando arrivò al proprio culmine. Posò la bocca sulla sua, sollevando
tra i denti un lamento che doveva essere di piacere ma che a lei parve
l’ululato di un animale ferito a morte. E nello stesso momento le esplose
dentro, con una spinta che le tolse il fiato. Adele s’inarcò, accogliendolo,
artigliandogli le spalle e cercando di allontanarlo il più possibile dalla
figura che incombeva su di loro. Non fece in tempo.
Fu un momento, uno
soltanto. Ma le bastò per capire e per urlare.
L’Uomo Grigio non
era più dietro la schiena del suo amante. Ma era dentro di lui. Lo vide attraverso
le iridi scure dell’agente Serra, che si dilatarono, diventando ancora più nere
e insondabili. Lo avvertì nel tocco delle sue braccia e nell’irrigidirsi del
pene dentro la sua vagina, che si fece gelido e sgradevole come fosse rivestito
di carta vetrata. Lo annusò nel respiro che l’uomo, ormai posseduto, inalò
nella sua bocca aperta. Sapore di rancido. Di abbandono.
Adele scalciò, si
dimenò, allontanandolo finalmente da sé. E nello stesso tempo si sfilò dal suo
corpo, adesso pesante e inerte come quello di un moribondo. Rotolò lungo il
letto disfatto e si lasciò cadere sul pavimento. Batté la schiena, e le natiche
nude, in una aspra scossa di dolore, ma almeno si era sottratta a quella presa
disgustosa. Sentiva ancora sulla pelle il contatto viscido di quella… cosa. E dentro il suo seme che iniziò a
colarle lungo le gambe ritratte.
L’uomo che l’aveva
appena penetrata e che forse era ancora, in qualche modo, l’agente Serra, del
Distretto di polizia di Trastevere, era rimasto da solo, fra le lenzuola.
Quando lei sollevò la testa, per osservarlo oltre l’orlo del letto, lo vide
rannicchiarsi contro la testiera. Il suo cazzo pencolava molle e le sembrò
strano che poco prima quella cosa orribile l’avesse fatta vibrare di piacere.
La stanza sembrava
vuota, a parte loro, ma Adele notò le vaghe ombre sul soffitto, ritirarsi come
nuvole cacciate dal vento, scomparire, come non fossero mai esistite.
Anche l’Uomo Grigio
era scomparso. Forse permaneva ancora un po’ nello sguardo folle e spezzato
dell’uomo nudo dentro il suo letto. Ma solo un frammento. Che evaporò nello
spazio di pochi istanti.
- Che… che cazzo mi
hai fatto? – L’agente Serra la guardava sbalordito e ferito. Si teneva le mani
fra le cosce.
Adele non rispose.
Allungò una mano, raggiunse l’accappatoio che lui le aveva strappato di dosso,
e si coprì come poté.
- Che cazzo mi hai fatto? – ripeté l’uomo,
senza evitare quel tono colmo di paura e il tremolio della voce. E il disgusto!
Il disgusto che provava per lei e che traspariva dalla sua voce!
Non sono stata io, avrebbe voluto
dirgli. Ma credo che tu sia stato
posseduto. Anche se per pochi attimi.
Ma naturalmente non
lo disse. Non disse nulla. E aspettò che lui si rivestisse e andasse via.
Fuggisse, in qualche modo. Lasciandola di nuovo sola nella magnifica,
accogliente e mai sopita casa Halbritter.
11
Ogni mattina, come sempre. Una doccia lunga, bollente,
durante la quale la pelle diventa rossa. Le pare quasi di dover arrivare a
sanguinare, per quanto si sforza di strofinare e strofinare.
Una lunga pausa
davanti allo specchio. Nulla sembra cambiato. E’ ancora lei, nonostante tutto. Ma
forse qualcosa di diverso c’è. Una piega anomala del labbro. Una ruga di quelle
che chiamano “d’espressione”. A parte questo, è lei, Adele.
Non è brutta. Ma
neanche bella. Nessuno si volterebbe a guardarla, girando la testa lungo la
strada. Ma nessuno arriccerebbe neanche il naso fissandola in volto. E’ solo
anonima. Non repellente.
Nessun fantasma si
affaccia oggi oltre la cornice della porta del bagno. E quell’altra, di porta,
sembra ben serrata. Ha dato un’ulteriore mandata, per sicurezza. Non si sa mai.
Ci sono cose, oggi, che ieri non pensava potessero accadere.
Nessun Uomo Grigio.
Tace. E’ scomparso. E’ tornato nel suo inferno. Chissenefrega. Adele non ha
paura. Non ne ha mai avuta.
Anche il piano di
mezzo, sempre buio, è tornato a essere quello di sempre. Una zona della casa
che lei non usa. Semplicemente. Porte chiuse. Vuoto. Silenzio. Odore leggero di
muffa e naftalina. Ombre immobili.
Questa mattina come
ogni mattina.
Perché nulla è
accaduto.
E nulla accadrà.
E’ la sua vita. Lo
saprà, no?
Ma quando passò
davanti ad Antonio, con la sua sporta della spesa, al ritorno dal consueto
giro, colse il suo sguardo, e quel modo di passarsi la lingua sulle labbra,
come se stesse assaporando ancora quegli acini d’uva zuccherina che le aveva
rubato, qualche giorno prima.
Adele gli sorrise.
Ma lui manco ricambiò. Anzi, le sembrò che girasse lo sguardo dall’altra parte
come fosse stato colto in fallo. Come se si vergognasse.
Antonio? Non l’era
mai sembrato tipo da vergognarsi di qualcosa. Allora forse c’era davvero
qualcosa, in lei, che traspariva, che era impossibile non riconoscere? Forse
l’assalto che aveva subito da quel poliziotto arrogante? Era così visibile che
anche Antonio, in genere placido e indifferente, aveva notato i segni rossi sul
suo collo, la vibrazione nuova del suo corpo. Ma no, non era possibile. Eppure…
L’immagine di
Antonio che le gridava “puttana” le graffiò la mente.
Gli si avvicinò,
anche se non era da lei. In genere amava stare a guardare gli eventi che
accadevano, non viverli. Mai starci in mezzo. Ma le cose cambiavano, cambiavano
rapidamente e lei non capiva perché. Questo la faceva star male. Quindi perché
non doveva tentare di comprendere?
Antonio, alla fine,
non poté fare a meno di incrociare il suo sguardo e fu costretto a sorriderle.
Un sorriso strano, non dei suoi. Era come se avesse perso tutto il suo smalto.
Sembrava smarrito.
- Buongiorno
Antonio
- ‘giorno Adele.
Gli si piantò
davanti. Entrava in quel momento nel Palazzo Corsini qualche sorta di
delegazione. Una mezza dozzina di uomini e donne, elegantemente vestiti,
aspetto e modi indaffarati. Chiacchieravano tra loro e non degnarono loro due
di uno sguardo. Ma Antonio salutò deferente, facendoli passare. E ne
approfittò:
- Adele, mi scusi,
ma stamattina è giornataccia.
- Capisco, sì. Non
vuole sapere cosa ho comprato oggi? Sa che ci sono le fragole?
L’uomo sembrò non
capire. Scuoteva la testa e ogni tanto indirizzava un sorriso di circostanza
alle persone che attraversavano il grande portone.
- Fragole, Antonio.
Non vuole assaggiarne come ha assaggiato la mia uva?
- La sua uva? Che
sta dicendo, Adele?
- La mia uva. Ne ha
mangiato… l’è piaciuta… non si ricorda?
- Veramente no… Mi
scusi, ma ho davvero un mucchio di cose da fare!
- Cosa c’è Antonio?
Non le piaccio più?
Antonio si fermò,
sorpreso. Parve spaventato.
- Di cosa sta
parlando?
- Di me e di lei.
Non le piaccio più Antonio?
- Ma… sì, lei mi
piace… ma non capisco…
- E’ successo
qualcosa Antonio? E’ cambiata qualcosa? Perché io non comprendo cosa stia
succedendo. La situazione sembra stia sfuggendo di mano a tutti. Anche lei,
Antonio… anche lei ha qualcosa che non vuol dirmi!
Adesso le pareva
davvero inorridito. Era come se si fosse accorto anche lui che qualcosa
stonava.
La porta è rimasta aperta troppo a lungo, Antonio.
- Adele, io non ho
nulla da dirle. Io la conosco appena…
- Mi conosce
appena?
- Sì. Cioè, un
buongiorno e un buonasera. Anzi solo un buongiorno perché non l’ho mai vista
fuori di casa se non la mattina. Ed è quello che ho detto a quei poliziotti, né
più né meno…
- A chi?
Adesso Antonio era
pallido e farfugliava. Non aveva più un grammo di quel fascino che Adele
credeva di avergli notato. Non era più il romanaccio tosto e gagliardo che lei
spiava da dietro le persiane socchiuse, sfiorandosi al solo pensiero del suo
tocco rude quando non aveva altre fantasie cui attingere. Sembrava di più un
portiere d’albergo di infima categoria, vile e ruffiano, che tentava di
giustificare una sua mancanza.
- Nulla! – giurò, -
non ho detto loro nulla. Anche quando sono andati via e quello giovane sembrava
fuori di sé… e mi hanno chiesto se davvero sapevo chi fosse lei… io non ho
detto una parola! Io non dico nulla del vicinato… sono una tomba, Adele, glielo
giuro!
E cosa avrebbe
dovuto dire? E cosa aveva raccontato “quello giovane” che sembrava fuori di sé?
Che era una puttana? O forse che era qualcos’altro?
Ci sono fantasmi,
in quella casa. Cose maledette. E lei vi vive indisturbata e senza paura.
Soltanto una strega potrebbe vivere in un posto simile.
Questa è la casa del Diavolo, non l’hai
capito? aveva urlato Chiara alla sua tremula consorella. E magari aveva
ragione.
Adele guardò verso
la sua casa. La facciata era effettivamente tetra. Le mura scurite dal vento
del Tevere. Le finestre chiuse. Lasciavano solo presagire gli ambienti interni.
E chi li abitava.
Tornò a guardare
Antonio. Lui abbassò lo sguardo.
- E’ così sta la
questione? – gli chiese.
- Che cosa? Quale
questione?
- Io sono la
strega, Antonio?
- Ma di cosa parla!
Una strega?
- Io sono la strega
e quella è la casa del diavolo? – Indicò le sue finestre. Antonio seguì anche
il suo sguardo e parve riflettere seriamente sulla faccenda. L’aspetto di casa
Halbritter non aiutava. Sembrava un monolite di pietra grigia tra gli splendori
di Villa Farnesina e di Palazzo Corsini. Una bruttura che solo Belzebù avrebbe
potuto permettere di far spuntare tra monumenti così belli.
Forse era vero. Le
cose stavano proprio in quel modo.
Adele fissava la
sua casa. Le finestre del secondo piano erano doverosamente sprangate. Persiane
serrate su quel corridoio triste e su quelle stanze ormai vuote a parte vecchi
mobili e qualche quadro alle pareti scolorite e gli affreschi consumati sui
soffitti alti. Adele guardava e vedeva, all’improvviso, non solo quanto la sua
casa fosse brutta, ma anche quanto fosse… maligna. Ecco. Quella era la parola
che cercava. Maligna.
Ma come era
successo? Non era mai stata così.
Una delle finestre
del secondo piano, l’ultima nell’angolo a sinistra si aprì lentamente. La
persiana, che pure doveva essere chiusa, scivolò di lato, rivelando il mezzo
occhio cieco della finestra dietro. Adele non vedeva bene. Le sembrava che
qualcuno avesse appoggiato la fronte al vetro e la stesse guardando. Ma era
troppo buio.
- La vedi anche tu,
Antonio? – domandò all’uomo che era rimasto imbambolato e imbarazzato accanto a
lei. Lui non rispose, ma seguì il suo sguardo.
- La finestra,
Antonio. La vedi anche tu?
- Quella aperta?
- Sì. Ma non
dovrebbe essere aperta.
- Sarà stato il
vento. O Maria che non l’ha chiusa bene. Oggi era il suo giorno, no?
- No. Lo sappiamo
tutti e due, vero Antonio?
- Non so cosa
rispondere…
Un motivetto che
Adele aveva già sentito si scatenò nelle tasche del custode e lui afferrò al
volo, cellulare e occasione. Le chiese scusa con gli occhi e si allontanò per
parlare al telefono.
Adele tornò a
guardare la sua finestra. La persiana era tornata a chiudersi. Nessuno dietro
il vetro scuro a guardarla. Solo una facciata annerita dal tempo. Triste forse.
Non maligna.
12
Avrebbe acceso la luce. Almeno questo. Avrebbe illuminato
quella lingua scura di corridoio prima di mettervi piede. Sapeva che le cose
che infestavano la sua casa e la sua vita non fuggivano davanti a una lampadina
elettrica, ma ricacciare le ombre negli angoli le dava comunque un certo
conforto. Non era paura, quella che avvertiva. Ma l’inquietudine di non sapere
come comportarsi. Di non sapere con chi avesse davvero a che fare. Però quella
era casa sua. Lo era sempre stata. E per quanto avesse rinunciato da tempo a
vivere una vita normale – così dicevano le persone alla TV, una vita “normale”
– non voleva dire che avrebbe rinunciato anche a viverla fra le mura che
l’avevano vista nascere.
Accese
l’interruttore. Ma il corridoio mantenne il suo aspetto lugubre. Era come se la
luce non riuscisse davvero a rischiararlo. Come se le pareti assorbissero
energia e luminosità.
Non c’era nessuno a
ostacolarle la strada. Forse non c’era davvero niente. Anche se non ci contava
troppo.
Appena rientrata in
casa aveva controllato dappertutto. Non c’erano Sognanti (non ne vedeva da un
po’, in effetti, se considerava l’Uomo Grigio e la sua corte appartenenti a una
razza differente). E anche la porta della sua immaginazione era ben chiusa. Per
sicurezza Adele l’aveva aperta (nella mente, nella sua mente, era bene che lo
ricordasse), aveva sbirciato dentro (senza naturalmente vedere nulla, dietro la
porta non pensava vi fosse un vero spazio fisico, era più uno stato della
coscienza, anzi delle coscienze) e poi l’aveva chiusa di nuovo. La sua mano
mentale aveva afferrato la sua chiave mentale e l’aveva infilata nella
serratura mentale. Aveva girato tre volte. Aveva sentito il clic del meccanismo
che si chiudeva. Non c’era possibilità che qualcuno l’aprisse nuovamente.
Fatto questo era
salita al secondo piano. Là c’era il problema. Non dietro la sua porta di
magnifica quercia.
Sul lato destro del
corridoio, quello che si affacciava su via della Lungara (e dove una persiana
era stata aperta e richiusa da una folata di vento molto particolare) c’erano
quattro porte per tre grandi stanze. L’ultima dava su un bagno che Adele
ricordava rivestito di maioliche azzurre e con un’immensa vasca con piedini
d’ottone a forma di zampe di grifone. Ma forse non erano zampe di grifone. Chi
l’aveva mai visto un grifone? Era il bagno preferito da sua madre. La vedeva
ancora là dentro, un braccio mollemente rilasciato al di fuori della vasca, i
capelli che si allargavano sull’acqua alle sue spalle, e il suo sguardo sempre tiepido
e compassionevole. Compassionevole per se stessa, non per la figlia sgraziata
che la ammirava in punta di piedi nell’aria satura di vapore.
L’altro lato del
corridoio aveva solo tre porte. L’ultima era stata murata quando la casa era
stata divisa in due. La parte dell’edificio che si affacciava sul giardino di
Villa Farnese, e che non era proprietà degli Halbritter, era stata abbandonata
da decenni. Dietro le pareti ricoperte di carta da parati una volta finissima e
adesso solamente scolorita e triste, Adele immaginava gli ambienti chiusi,
deserti e polverosi dell’ala che non apparteneva a lei. Forse era da lì che
erano venuti quei nuovi fantasmi. Dalle interiora morte di ambienti
dimenticati.
Vuoi farlo davvero?
Sì. Questa è casa
mia.
E allora non resta
che entrare.
Lo fece, e una
nuova sensazione emerse. Fu come riappropriarsi di un territorio perduto. Come
ritrovare un luogo della memoria. Eppure quel corridoio con le sue stanze
lugubri era sempre rimasto lì e lei lo aveva visto e ignorato ogni giorno della
sua vita. Non c’era nulla di nuovo. A parte le presenze che, pensava, si
fossero rintanate laggiù.
Proseguì
lentamente, senza aprire le porte che le scorrevano ai lati. In fondo, di
fronte a lei, una finestra che quasi aveva dimenticato. Accuratamente sprangata
non faceva filtrare neanche uno scampolo di luce e laggiù, al buio, era
praticamente invisibile dall’inizio del corridoio. Per questo ne aveva quasi
dimenticato l’esistenza. Adesso, però, Adele la rammentava bene. Quando era
bambina non era mai stata tenuta chiusa. Dava a sud-est e la mattina permetteva
al sole di indorare tutto l’ambiente. Era una vera fonte di luce e calore verso
la quale lei adorava correre, trent’anni prima, percorrendo quello stesso
pavimento, per poi incollare il viso al vetro riscaldato. Da lassù poteva
vedere la parte finale della Lungara, e la splendida Porta Settimiana dalla
quale suo padre le aveva raccontato che i garibaldini erano entrati per
invadere anche quella parte di città e scacciare i francesi. Se si sollevava
abbastanza poteva scorgere un frammento di fiume che scorreva alla sua
sinistra, appena oltre la rigogliosa vegetazione dei giardini di Villa Farnesina.
Adesso quella vecchia breccia sulla città era solo uno spazio cieco, nero, dal
quale penetravano polvere e piccoli animali. Eppure Maria puliva dappertutto.
Perché quella finestra era così corrotta?
La raggiunse.
Sfiorò le assi che la inchiodavano.
La luce si spense.
Qualcosa fece vibrare il legno che sigillava la finestra. Forse il vento. Lo
stesso vento che aveva aperto e chiuso una persiana.
Adele si voltò
verso l’oscurità. Non le piaceva avere il corridoio alle spalle. E adesso
l’uscita era in fondo. Il resto della casa era ancora illuminato. Il buio era
piombato soltanto lì, dove si trovava lei.
Le porte delle stanze erano tutte aperte.
Eppure non aveva sentito alcun rumore.
Doveva essere successo mentre lei procedeva verso il fondo
del corridoio. Le immaginava spalancarsi silenziosamente, una ad una, al suo
passaggio. Una specie di saluto. Una minaccia.
Aveva ragione. Le
anime che accompagnavano l’Uomo Grigio dovevano essersi rintanate in quelle
camere. L’avevano fiutata e adesso si trovavano tra lei e l’uscita. Acquattate
in quel buio improvvisato.
- Non ho paura –
gridò al vuoto. Ma il suono della sua voce sì che le mise terrore. – Non ho
paura di voi. Siete solo… solo sogni…
Nessuno le rispose.
Ma avvertiva la loro rabbia. La loro disapprovazione.
- Questa è casa
mia! Se volete esserne ospiti dovete farvi vedere… Dovete chiedermelo… Dovete
pregare per la mia ospitalità!
L’ultima porta,
sulla sua sinistra, quella più vicina al pianerottolo illuminato si mosse
appena. Neanche un cigolio. Maria sapeva fare bene il suo lavoro. Olio in tutte
le giunture. Ma forse s’era mossa per una corrente d’aria. Adele la fissò. Si
aspettò che qualcuno uscisse e le venisse incontro. Non accadde. Non succedeva
nulla.
- Io vi ho
avvertito! – gridò ancora al vuoto. Le venne in mente lo show di David
Townsend. Anche lui, scandagliando vecchie case o ex ospedali psichiatrici
gridava al buio: Ehi, io sono qua. Se vuoi farti sentire. Se vuoi parlarmi. Io
sono qua. Non sono un tuo nemico. Voglio solo aiutarti.
Era raro che
qualcuno gli rispondesse. E quando capitava si trattava di gorgoglii
incomprensibili o sussurri che potevano essere stati causati da qualunque cosa.
Ma David era forte, e ogni volta esultava: Accidenti, che risultato
formidabile. Ho la pelle d’oca a sentire queste parole. Voci dall’altra parte.
Adele, per quanto
si sforzasse di ascoltare l’inascoltabile non riusciva ma a sentire nulla. E non aveva mai avuto la pelle d’oca.
Forse David
Townsend avrebbe dovuto venire a casa sua.
- Andate al
diavolo! – esclamò e attraversò il corridoio, rapida, senza fermarsi e senza
guardarsi indietro.
Le porte, una a
una, al suo passaggio si chiusero con un fragore che la fece sussultare a ogni
colpo. Ma non si fermò. Probabilmente il suo passaggio aveva smosso l’aria
facendole serrare.
(Non dire cazzate. Non dire cazzate)
Quando arrivò sul
pianerottolo si fermò, un leggero ansimare non dovuto alla paura ma all’ansia
di sottrarsi a quel gioco stancante.
Casa sua. Quella
era casa sua. I Sognanti erano sopportabili, con il loro silenzio e la loro
totale disattenzione. E nonostante ciò lei li aveva rinchiusi dietro la magica
porta di quercia. Figurarsi se avrebbe sopportato altri fantasmi.
Si voltò, con un
mezzo sorriso di soddisfazione.
Non mi fate paura!,
avrebbe voluto gridare.
L’Uomo Grigio era
al centro del corridoio. La fissava con sguardo colmo di odio. Il nero dei suoi
occhi era così denso che poteva essere stato animato solo da una fusione di
rabbia e cattiveria. E alle sue spalle, dalle porte adesso di nuovo aperte,
esondava la sua corte di mostruosità. Proprio come una marea di anime in pena.
Morti cattivi. Morti che si alimentavano allo spirito dell’uomo alto e nello
stesso tempo sostenevano la sua furia trattenuta. Adele comprese che nessun
appello all’ospitalità avrebbe potuto arginare il furore che trapelava da
quegli sguardi ciechi. L’Uomo Grigio e i suoi spettri erano là per una ragione
che lei non comprendeva ma che non contemplava sicuramente compassione o
umanità.
13
Non era mai stata prima in un ufficio di polizia. L’unica
idea che ne aveva era tratta dai telefilm e dalle fiction che seguiva in TV.
Immaginava un caos controllato. Uomini e donne indaffarati. Delinquenti
ammanettati che venivano trascinati per i corridoi sotto gli sguardi un po’ allibiti
e un po’ smarriti dei visitatori. Pensava di dover sedersi su una sedia accanto
a qualche pregiudicato o a un paio di prostitute ancora in veste da lavoro e di
dover spiegare di essere lì soltanto per una denuncia. Una formalità, avrebbe
spiegato.
Il commissariato di zona non era come s’aspettava.
Intanto si
sviluppava per tre piani di una palazzina antica con controsoffitti a
cassettoni e pavimenti in marmo. Nonostante l’usura del tempo e l’incuria
appariva sempre magnifico. Non c’era confusione all’interno. I poliziotti (ma
lo erano tutti? Ne vedeva molti in borghese) sembravano rispettare l’ambiente
in cui lavoravano. Si muovevano tra le varie stanze senza far rumore. Rapidi ma
silenziosi. Alcuni portavano documenti e si riconoscevano solo perché, a volte,
si vedeva spuntare il calcio di una pistola da una cintola. Se non fosse stato
per quel particolare avrebbe potuto essere l’ufficio di un’agenzia di
assicurazioni. Inoltre non c’erano sedie spigolose appoggiate alle pareti su
cui gli arrestati della notte aspettassero, tremando, il proprio giusto
destino, ma alcune comode poltroncine in velluto blu, disposte a semicerchio in
un’area piccola ma confortevole destinata all’attesa. Su una di quelle poltrone
la fecero accomodare, avvertendola che sarebbe stata chiamata in pochi minuti.
Adele si sedette con la massima compunzione. E attese. Come da disposizioni.
Il pomeriggio del
giorno prima era passata da casa quella che pensava chiamassero volante di
zona. Una ragazza grassa costretta in una risicata divisa blu l’aveva
semplicemente informata che doveva recarsi al distretto per firmare alcuni
documenti. Adele sapeva di cosa si trattava e da quel momento aveva iniziato
una lenta fibrillazione. Non si sentiva tesa per il contenuto della denuncia presentata
nei suoi confronti (nessuno l’avrebbe mai condannata perché in casa sua si
aggiravano fantasmi molesti) ma perché temeva di dover incontrare l’agente
Serra. Sentiva ancora il calore del suo seme tra le gambe ma soprattutto ne
rammentava lo sguardo mentre l’Uomo Grigio lo possedeva.
E poi c’era la ferita più grave quella che continuava a
suppurare. In questa casa vive una strega! Qui è la dimora del diavolo! Adele
temeva che le visite delle due testimoni di Geova e dei poliziotti avesse alla
fine fatto trapelare il segreto che era riuscita a mantenere per tanti anni. E
se nel quartiere si fosse diffusa la notizia che tra le mura della casa scura
si aggiravano strane presenze e che la sua inquilina vi coabitasse
tranquillamente, si sarebbe vergognata a tal punto da non farsi mai più vedere
da nessuno. In qualche modo, anzi, sentiva che quello era il suo vero destino.
La donna solitaria e un po’ stramba che tutti avrebbero evitato. La leggenda si
sarebbe diffusa con una rapidità incredibile. Sarebbe diventata famosa quanto
la Fornarina e sotto le sue finestre, come sotto il balcone della presunta
amante di Raffaello, si sarebbero fermati curiosi e passanti a indicare le
persiane chiuse, a commentare e a sperare di vedere qualcosa di bizzarro e
spaventoso. Magari il volto affilato dell’Uomo Grigio.
La mattina presto,
così, accantonata la prospettiva di compiere la sua consueta passeggiata per il
quartiere, lavata e vestita (sotto la doccia aveva trascorso solo un po’ più
del tempo che solitamente si concedeva, strofinando e strofinando fino a vedere
trasparire il rossore brillante sulla sua pelle) s’era diretta con risolutezza
verso il distretto di polizia. Nel corso del tragitto il suo cuore aveva
battuto con particolare violenza nel petto e quando era arrivata all’indirizzo
che la poliziotta le aveva dato aveva iniziato a guardarsi intorno con ansia.
Dell’agente Serra non aveva trovato traccia. E mentre il battito in seno s’era
un po’ placato aveva avvertito come il sapore stantio della delusione. Forse una
parte di sé avrebbe voluto incontrarlo di nuovo, quell’uomo. In fondo, finché
non era apparso lo spettro che incombeva sul loro amplesso, l’incontro con lui
non l’era dispiaciuto affatto.
Il commissariato
intanto si animava. Non era come alla televisione, in effetti, ma ecco che
adesso entravano alcuni uomini in divisa che spingevano un ragazzo con le
manette ai polsi. Teneva le mani legate dietro la schiena e aveva
un’espressione di disarmata sofferenza sul volto. Nel tragitto, dall’entrata
alla porta della stanza in cui lo portarono e lo fecero scomparire, alzò gli
occhi e guardò lei. Aveva iridi cerulee, quasi più chiare delle sue, ma non le
mandò messaggi di disperazione. Piuttosto sembrò sfidarla, sorridendole
persino. Fu uno sguardo osceno che Adele
avvertì fino dentro lo stomaco. Le fece percepire, nello spazio di un attimo,
quanto la sua vita fosse lontana da quello che in realtà accadeva nel resto del
mondo.
Quando il
prigioniero fu inghiottito dal suo oscuro futuro, Adele si accorse che non era
più sola. Una donna sedeva su una delle poltrone accanto alla sua. Non riusciva
a capire se fosse giovane o anziana. Era rattrappita, china in avanti con il
volto coperto dalle sue mani. Piangeva silenziosamente dietro una lunga cascata
di capelli biondi. Due ginocchia magre oltre l’orlo di una gonna da poco. E
braccia bianche e lisce. Avrebbe potuto avere sedici come cinquant’anni.
In uno sforzo per
lei enorme, Adele allungò appena una mano. Avrebbe voluto consolarla
(immaginava fosse la vittima di un reato o forse la figlia o la moglie di
qualcuno appena arrestato), chiederle cosa le fosse accaduto. Qualcuno la
interruppe: - Signora Halbritter?
Ritrasse la mano.
L’ispettore Carboni era in piedi, davanti a lei, e le sorrideva, le sembrò un
po’ forzatamente. La donna comunque non s’era accorta del suo gesto.
- Vuole seguirmi,
per cortesia?
Adele si alzò. Lo
seguì. Ma non resisteva alla tentazione di chiedere. – Cos’ha fatto quella
donna?
Carboni, che la
stava precedendo, si voltò verso di lei.
- Quale donna?
Adele gliela
indicò. La bionda sconosciuta singhiozzava senza suoni, la faccia sempre
nascosta tra le mani. Dita lunghe e unghie corte. Forse un po’ mangiate.
Carboni guardò
verso le poltroncine. Poi tornò a fissare Adele. Aveva un’espressione indecifrabile.
- Lei lo sa che non
c’è nessuna donna là, vero? – Glielo domandò scandendo bene le parole come per
sincerarsi che lei comprendesse bene.
In quel momento la
donna che Carboni non riusciva a vedere sollevò il viso e la guardò. Non stava
piangendo. Al contrario. Rideva. Con denti marci e le labbra tirate in una
smorfia volutamente sguaiata. Rideva di lei, naturalmente. E della sua paura.
Perché adesso –
Adele se ne rendeva all’improvviso conto – la paura era l’unica sensazione che
provava e che predominava inaspettatamente su tutte le altre. Si dipingeva sui
suoi lineamenti, nei suoi occhi, che la Sognante e il poliziotto studiavano. Il
fantasma per sincerarsi che la sua presenza l’avesse terrorizzata. L’uomo per
capire quanto fosse pazza questa donna di mezza età che aveva invitato nel suo
ufficio.
Adele non aggiunse
altro. Ma era ipnotizzata da quell’apparizione. Che a un tratto si alzò,
smettendo di ridere, le mandò un cenno di saluto col capo, e si voltò,
andandosene via. Uscì dalla porta da cui proprio in quel momento entrava una
coppia di agenti in divisa. Nessuno di loro la vide. Naturalmente. Nessuno di
quelli presenti nell’edificio avrebbe potuto. Quello era uno degli incubi
personali di Adele Halbritter. Per l’occasione manifestatosi lontano da casa.
In trasferta avrebbe potuto dire. E questo era l’evento eccezionale. Il vero
spettacolo. Che la terrorizzava a morte.
Carboni la studiava
ancora. Indeciso su cosa fare.
- Devo essermi
sbagliata, - disse alla fine Adele, sapendo che era perfettamente inutile
avanzare qualche spiegazione. – Oppure è già andata via.
- Sì. Deve essere
così.
Lo guardò negli
occhi, adesso lucida. Riacquistava lentamente la padronanza di sé. – Dove
dobbiamo andare ispettore?
Carboni le fece
cenno di seguirlo e la condusse nel suo ufficio.
Era una stanzetta
ingombra di un paio di scrivanie, di uno scaffale in cui giacevano forse da
sempre fascicoli e faldoni impolverati e di una finestra da cui entrava la luce
livida e il rumore di Trastevere. Alle pareti un calendario della Polizia, foto
in bianco e nero di brutte facce, alcuni quadretti che dovevano essere encomi e
lodi ricevute sul campo, un poster scolorito con Mel Gibson (aveva visto anche
lei quel film) e uno con Gian Maria Volontè (no, quel film non era mai riuscito
a vederlo) e alcuni ritagli di giornale incorniciati. Fu subito attratta da
questi e rimase in piedi a guardarli.
Carboni si sedette
dietro una delle due scrivanie, frugò fra le carte che ne ricoprivano il
ripiano ed evidentemente trovò quello che cercava. Aprì un fascicolo e le
parlò, senza sollevare lo sguardo dal carteggio. Aveva un tono imbarazzato,
incerto: - Per quello che è accaduto l’altra mattina… hmm, signora Halbritter?
Anche Adele non
riusciva a distogliere lo sguardo da uno degli articoli di quotidiano che
qualcuno aveva incorniciato e appeso al muro. Era un ritaglio lievemente
ingiallito. Se ne intravedeva la data, in alto a sinistra. 14 gennaio 1999. Un
vecchio resoconto di cronaca giudiziaria. Due foto campeggiavano al centro.
- Signora
Halbritter, mi ascolta? Le parlavo di quello… spiacevole incidente dell’altro
giorno… col mio collega…
- Sì? – Le foto
avevano catturato la sua attenzione. Una in particolare.
- Vuole sedersi?
Così ne parliamo?
Ma Adele non lo
ascoltava più. La presenza della donna che rideva, adesso, acquisiva un
significato più inquietante che mai. Sembrava proprio che i morti non ne
volessero sapere di restare nelle loro tombe. E lei, a quanto pareva, era al
centro esatto della strada che li conduceva dal loro mondo al nostro.
Una delle foto si
riferiva all’arresto di un terribile serial killer (questa la parola che
usavano nell’articolo, faceva più sensazione) che aveva insanguinato le strade
di Roma all’epoca. Lo chiamavano il Macellaio solo perché alla fine avevano
scoperto che aveva un negozio di carne al Gianicolo. Due poliziotti, nello
scatto in bianco e nero, lo stavano conducendo in carcere. Uno dei due agenti,
pur nell’incertezza sgranata della foto, le sembrava un Carboni più giovane.
La seconda foto era
il ritratto in primo piano del Macellaio. Un volto affilato. Calvo. Occhi neri
e piccoli. Senza espressione umana. Una bocca come uno dei suoi tagli scelti di
carne. Lo avrebbe riconosciuto anche in una foto peggiore di quella. Non poteva
sbagliarsi.
L’Uomo Grigio.
14
Un cielo minaccioso di pioggia e ecco che Roma s’imbronciava
di nuovo. Ombre nerissime si allungavano sulle strade più strette e un colore
di tempesta si stendeva sul volto degli edifici. La città sapeva essere solare.
Ma bastava poco perché si tramutasse in una cattedrale di cupo splendore.
Adele lo sapeva. E
amava quell’aspetto della città. A volte lo reclamava. Ma adesso tutto le
sembrava troppo appropriato. E terribile.
Era ferma davanti alla sua casa, senza la forza di entrarvi.
Guardava le finestre, scure come occhiaie, e la facciata che sotto quella
strana luce appariva di uno spento color malva. Sullo sfondo, gli alberi del
giardino di Villa Farnesina si agitavano nel vento ponentino come scheletriche
prefiche che si strappassero i capelli per la disperazione.
Adele non aveva mai avuto paura dei Sognanti. A parte una
leggera inquietudine che l’aveva accompagnata tutta la vita e che, alla fine,
era diventata parte di sé (e che forse era stata la causa della sua solitudine)
non aveva mai temuto di chiudere gli occhi fra le pareti della sua camera da
letto, non s’era mai guardata alle spalle salendo o scendendo le scale, non si
era mai soffermata a sondare il buio che allignava in quelle stanze. Non c’era
mai stato posto per questi sentimenti.
Adesso tutto pareva cambiato. E il cuore le accelerava in
petto al solo pensiero di aprire la porta d’ingresso ed entrare.
C’era qualcuno, ora, in casa sua. Un non invitato. Uno
spirito cattivo.
Si chiamava, da
vivo, Marco Manfredi. Glielo aveva raccontato Carboni quando Adele aveva
insistito per conoscere la vicenda di quel ritaglio di giornale appeso al muro
come un triste trofeo. Chissà perché l’ispettore era stato così loquace. Forse
per allontanare l’imbarazzo di doverle fare domande su quanto era accaduto tra
lei e l’agente Serra. Forse perché aveva voglia di raccontarla davvero quella
storia, anche se non sembrava possibile
che qualcuno avesse il desiderio di farlo.
Marco Manfredi era stato una bestia intelligente e feroce. Ci
avevano messo due anni per individuarlo e fermarlo. Una faticaccia immane. Così
s’era espresso il poliziotto e Adele aveva notato una specie di piega della sua
espressione. Un misto di sollievo e terrore. Come se Marco Manfredi gli facesse
ancora paura.
Possibile che lei
non ricordasse? Era stato, per un certo tempo, l’assassino più famoso d’Italia.
La storia dei suoi omicidi aveva impegnato tutti i media per mesi e mesi. Adele
aveva spiegato all’ispettore che lei non guardava mai i notiziari alla TV e non
leggeva giornali. Viveva la sua vita. Il resto del mondo vivesse la sua. Era parso comunque strano al poliziotto che
lei non ne avesse mai sentito parlare.
Manfredi aveva
ucciso sette bambini. Solo di tre avevano ritrovato i cadaveri. Qualcuno aveva
pensato che gli altri li avesse mangiati. O che addirittura li avessi dati in
pasto agli ignari clienti della sua macelleria. Era un’ipotesi orribile e senza
prove ma dipendeva dal fatto che dai corpi ritrovati (povere ossa e brandelli
mummificati di carne) mancassero interi pezzi. E che lui facesse quel mestiere.
Nelle settimane successive, decine di persone s’erano presentate alla polizia
nella convinzione orribile di aver ingurgitato carne umana. Qualcuno aveva dato
fuori di matto. E c’erano stati due casi di suicidio tra i clienti della famosa
“Bottega della Carne” di Marco Manfredi.
Lui, il mostro, non
aveva mai confermato né smentito. A dire il vero, Manfredi non aveva mai aperto
bocca, dopo il suo arresto. E mentre lo raccontava, la pelle del volto di
Carboni sembrava impallidire sempre di più.
Quando ancora non
si conosceva il suo nome e il suo aspetto, era stato chiamato in vari modi. Uno
di questi era “Il Divoratore di Bambini”. Lo aveva sparato in prima pagina Il
Messaggero, in testa a un articolo che spiegava ai genitori di Roma cosa fare
per evitare che i propri figli venissero “divorati”. Dei piccoli scomparsi non
era mai stata, infatti, trovata traccia. I primi due erano spariti a distanza
di una settimana uno dall’altro. Avevano entrambi sette anni e vivevano
abbastanza vicini, tra Trastevere e Viale Marconi. Nessun rapporto di amicizia
o di conoscenza tra di loro. Ma gli investigatori avevano subito capito che
c’era un collegamento tra i due casi e non si aspettavano nulla di buono. Non
sembravano rapimenti finalizzati all’estorsione. Qualcuno faceva sparire i
bambini per altri motivi. E aveva appena iniziato.
Non passò molto che
altri piccoli, tutti maschi, tutti tra i sette e i nove anni, si unirono alla
terribile lista. Scomparivano dai cortili degli asili. Nel breve tratto che da
casa portava al lattaio o al giornalaio. Dagli androni dei palazzi in cui si
fermavano a giocare con gli amici. Non c’erano mai tracce, nessuno vedeva mai
niente di sospetto, nessuno se ne accorgeva prima che fosse troppo tardi.
Sembrava che sparissero letteralmente. Puff. Prima c’erano e poi non c’erano
più. Non sembrava ci fosse movente (se non l’ipotesi di un sadico pedofilo),
non c’erano corrispondenze tra gli scomparsi se non che abitavano tutti nel
triangolo di Roma Sud. Una porzione di territorio in realtà enorme.
Poi iniziarono le
telefonate alle abitazioni dei piccoli scomparsi. Mute. Caratterizzate da un
ronzio basso e diffuso. Continue. Nel tempo. All’inizio qualcuno fra quelli che
rispondevano attaccava, convinto di trovarsi davanti a qualche maniaco che
volesse insinuarsi in quella agghiacciante storia. Erano spesso poliziotti o
parenti e amici dei genitori a rispondere. Le madri e i padri degli scomparsi
annegavano in un dolore che impediva loro qualunque reazione ed erano, per lo
più, protetti da un cordone di difesa formata dai loro cari oltre che
controllati dagli inquirenti. Dopo qualche secondo, lo sconosciuto interrompeva
la comunicazione. Ma quando quel gesto si diffuse, e la notizia si propagò, i
genitori dei bambini pretesero di prendere il telefono in mano. E allora le
cose cambiarono. Dall’altra parte c’era sempre il silenzio. Ma la telefonata
non veniva interrotta se non dopo qualche minuto. Qualcuno all’altro capo del filo restava muto, in
ascolto. Un leggero respiro. I genitori allora iniziavano a piangere, a
disperarsi, a implorare. Urlavano. Invocavano la pietà del rapitore. Pregavano
perché i loro figli tornassero a casa. Le loro grida strappavano il cuore a chi
le ascoltava. E alla fine Carboni e gli altri che lavoravano sul caso capirono
i motivi di quelle telefonate.
- Quel mostro
bastardo godeva della sofferenza dei genitori. – L’ispettore aveva gli occhi
ancora lucidi mentre le raccontava la sua favola nera. – Telefonava proprio per
questo. Per dissetarsi al pianto disperato di una madre che voleva
riabbracciare il proprio bambino e che lo pregava, e lo pregava, e lo pregava.
Questo voleva, l’assassino. Si beava di quei lamenti e di quei pianti
strazianti. La morte della vittima era, come scoprimmo poi, un fatto
secondario. Una specie di effetto collaterale. Non evitabile perché
probabilmente se li avesse lasciati andare loro l’avrebbero riconosciuto. E non
era uno stupido, quello psicopatico figlio di puttana. Oh, non lo era davvero.
Scoprirono che le
chiamate – ma era prevedibile – provenivano sempre da cabine telefoniche e mai
dalle stesse. Misero sotto intercettazione tutti i telefoni pubblici della
città. Cercarono di tendere trappole. Ma senza risultato.
Poi la polizia fece
una scoperta. Fu per merito dei colleghi dell’antiterrorismo che avevano
sperimentato un nuovo metodo di analisi telefonica indagando sugli ultimi
attentati delle Brigate Rosse. Si accorsero che le schede telefoniche
prepagate, quelle piccole tesserine della Telecom, apparentemente anonime,
niente più che gettoni telefonici elettronici, in realtà conservavano una sorta
di memoria delle chiamate effettuate. Era una cosa che, all’epoca, non sapevano
neanche i tecnici dei gestori telefonici. In pratica le tessere magnetiche, che
potevano essere acquistate in qualunque rivendita, senza intestazione né
documento d’identità, mantenevano in memoria il tabulato di tutte le telefonate
compiute e di tutte le cabine in cui erano state usate. I poliziotti iniziarono
una ricerca e un’analisi furiosa dei tabulati di tutte le cabine in cui il
maniaco aveva telefonato. Speravano che il mostro, non conoscendo neanche lui questa peculiarità
delle schede telefoniche, potesse aver fatto l’errore di chiamare con la
medesima tessera non solo l’abitazione di una delle vittime ma anche, per
esempio, un proprio familiare. O un proprio amico. Insomma speravano che il
Divoratore avesse commesso un errore. Alcuni terroristi erano stati arrestati
con quel metodo.
- Fummo fortunati,
anche se la parola fortuna in questa storia di merda non dovrebbe entrarci. – E
Carboni si era passato una mano sugli occhi. Adele aveva immaginato che quelli
fossero gli stessi occhi che avevano visto i corpi delle vittime ritrovate e i
genitori a cui era stata data quella notizia. Troppo dolore per due occhi così.
Alla fine lo
presero. Appena in tempo. Era appena scomparso un ottavo bambino. Un bimbo più
piccolo degli altri. 5 anni e capelli biondi e riccioli che aveva disubbidito
alla mamma e mentre lei stava stendendo i panni in terrazzo aveva aperto la
porta di casa ed era sceso in strada. C’era un gattino che miagolava e lui
voleva vederlo e magari, con un pizzico di coraggio, portarlo a casa.
Il Divoratore
passava di lì per caso, sul furgone che utilizzava per caricare la carne al
macello e portarla alla sua bottega. Aveva impiegato due minuti per accostare,
guadagnarsi la fiducia del bambino, e poi strattonarlo con tanta forza da
lussargli una spalla per caricarlo in macchina. S’era poi precipitato verso un
casolare che teneva nella campagna tra Roma e Ardea, mentre il bambino urlava
di dolore e di paura.
Ma la polizia era
già arrivata a qualche nome, scavando nei tabulati di quelle cabine
telefoniche. E il suo spiccava sugli altri per alcuni vecchi precedenti. Roba
da poco, errori di gioventù perdonati facilmente da qualche giudice in vena di
comprensione, ma abbastanza da solleticare la curiosità degli sbirri.
Carboni in persona
e la sua squadra lo aveva intercettato mentre fermava il furgone davanti
all’edificio isolato, nella sonnolenta campagna laziale. Non aveva opposto
alcuna resistenza e aveva offerto il polso alle manette che i poliziotti gli
esibirono. Quando avevano aperto le porte posteriori del furgone con la scritta
sul fianco in rosso acceso “TAGLI DI PRIMA SCELTA – MACELLERIA MANFREDI” erano
stati investiti dall’odore aspro della carne cruda, del sangue essiccato e
degli escrementi del bambino che aveva appena rapito.
Il racconto di
Carboni, in quel punto, s’era come sfilacciato. Era stato come se ricordare
quei fatti lo avessero davvero stancato. Forse, aveva pensato Adele, era tanto
che non ne parlava. O addirittura era la prima volta che s’era lasciato andare
a quel ricordare. Anche se l’articolo di giornale piantato là, sul muro di
fronte alla sua scrivania, era un memorandum formidabile cui certamente il
poliziotto non si poteva sottrarre.
Eppure, era bastato
un accenno di curiosità da parte di lei, che l’uomo l’aveva accontentata con
una dovizia di particolari in effetti non richiesti.
L’ultima domanda
che Adele aveva avuto il coraggio di fargli riguardava le motivazioni di
quell’assassino. Davvero era stato tutto
finalizzato al dolore dei parenti delle vittime? Davvero si poteva essere così
crudeli da gioire alla sofferenza infinita di una madre o di un padre che
perdono il proprio figlio?
Carboni s’era
stretto nelle spalle, riconquistando un certo controllo di sé. Non c’era più
quella luce liquida nei suoi occhi. Piuttosto una sorta di ipotermia dei
sentimenti. Uno scudo.
Nessuno aveva mai avuto
la possibilità di interrogare Marco Manfredi dopo il suo arresto. Il Macellaio
s’era ucciso il secondo giorno d’isolamento. Non si capì mai come avesse fatto
a procurarsi la lametta da barba che aveva spezzato e poi ingoiato, nella sua
prima notte in carcere. Era avvenuto nel vecchio penitenziario di Regina Coeli, oggi chiuso. Propri lì. In
Via della Lungara. Duecento metri appena dalla casa di Adele.
15
Ecco perché entrare di nuovo in casa le fu difficile. E la
fragile speranza di sfuggire a quell’orrore fu subito vana.
L’Uomo Grigio
l’aspettava, sulla scala che portava ai piani superiori. Immobile, la fissava.
E adesso l’evanescenza che aveva caratterizzato la sua apparizione nei primi
giorni era scomparsa. La figura era nitida, reale quanto quella di uno
qualsiasi dei suoi ormai rimpianti Sognanti.
Lo spettro del
Divoratore di Bambini la guardava. E qualcos’altro era cambiato in lui.
Sorrideva.
Sembrava felice.
Nessun commento:
Posta un commento