Ospitando...

Ospitando Marco De Franchi


Un regalo speciale, un lavoro che deve ancora vedere la "luce", un nuovo esperimento di Marco De Franchi, un capitolo di un romanzo in scrittura, un inedito non definitivo, in cui il testo finale potrebbe anche essere molto diverso.







La vecchia era tornata a sorridere. Ma i suoi occhi restarono bianchi. I fili di rame tra i suoi capelli erano immobili, nonostante una brezza leggera che animava la mattina.
La mente di Adele cominciò a cercare la maniglia. L’immagine della maniglia.
Antonio interruppe il flusso dei suoi pensieri.
- Ha fatto proprio una buona scelta, Adele. Quest’uva è strepitosa!
Adele serrò le labbra. Batté le palpebre sugli occhi marroni. – Lo sapevo da me! - sibilò - Ma grazie. E buongiorno.
Poi attraversò la strada e invece di dirigersi verso il suo portone, proseguì in direzione di via dei Riari, dalla porta opposta a quella dalla quale era venuta, come se avesse dimenticato una commissione importante. Alla sua destra scorreva il muro che la separava da Villa Farnesina e dall’immenso giardino sul quale si affacciava anche la parte posteriore della sua casa.
Antonio restò a guardarla, fermo davanti al grande portone.
La vecchia invece riprese a seguirla. A distanza, ma la seguiva. Procedeva dall’altra parte della strada rispetto a lei, lungo lo stretto marciapiede, all’esile ombra dei cornicioni spioventi, sempre guardandola coi suoi occhi senza colore.
Che pazienza ci voleva! Cercò ancora di evocare l’immagine della maniglia, ma non riusciva a metterla a fuoco come si doveva. La porta era aperta. Doveva essere così. Eppure era sempre stata attenta.
Il marciapiede odorava adesso di foglie appena morte. Venivano dai platani lungo il Tevere e si depositavano lungo la strada, già cominciando a scolorire. Colpa del vento dei giorni precedenti. Un vento che aveva scosso Roma nelle sue fondamenta. Per il momento, l’odore delle foglie staccatesi anzitempo dagli alberi era ancora buono. Poi, con le prime piogge, tutto avrebbe iniziato a marcire. A puzzare. I miasmi avrebbero soffocato il quartiere, finché qualcuno non avesse deciso a togliere quella sozzura dalla strada. Ecco. Questa era una delle cose della morte che colpiva Adele. La trasformazione. Il miracolo della decomposizione. Il mistero per il quale una cosa bella e odorosa possa trasformarsi in una mostruosità maleodorante.
La vecchia sembrava aver colto quel suo pensiero, e s’era fermata, come offesa, al di là della via.
Anche Adele si fermò. Aveva trovato finalmente un bidone della spazzatura. Era arrivata all’angolo con via della Penitenza. Di fronte a sé si sporgeva timidamente la chiesa di Santa Maria delle Scalette, con i due ordini di scalini, appunto, che conducevano all’ingresso. Si diceva che nell’annesso monastero, molti secoli prima, le donne di malaffare si recassero per redimersi. Ancora l’amore profano che si mescolava col sacro. Adele si disfò del cartoccio di uva zuccherina senza rimpianto. Aveva ancora negli occhi il sopruso di Antonio. Cibarsi della sua uva senza aver richiesto il permesso. Vedeva ancora le sue labbra sporche di succo rosso. Il suo succo!
Riprese la via di casa, mestamente. Le borse delle spesa che cominciavano a pesare in fondo alle braccia. Camminava e fissava a sua volta quella figura anziana e penosa.
La vecchia camminava e non parlava. I suoi occhi senza pupilla visti da vicino erano raccapriccianti.
Adele si fermò e serrò le palpebre. La maniglia d’ottone brillava ancora nel buio della sua mente. E sempre nella mente lei la raggiunse. La sfiorò, l’afferrò, l’abbassò. La maniglia scivolò. La porta finalmente si chiuse.
Quando Adele riaprì gli occhi, la vecchia non era scomparsa. S’era anzi avvicinata. Stazionava in mezzo alla strada, adesso, e le sorrideva cattiva. Felice che il trucco della maniglia non avesse funzionato.
Adele sussultò.
L’auto arrivò a forte velocità. Non si poteva correre in quel modo per quelle strade strette, ma qualche idiota al volante c’era sempre.
La vecchia guardò Adele, poi guardò l’auto. Aprì la bocca, per urlare, ma non uscì alcun suono. Tanto non ce l’avrebbe mai fatta a spostarsi.
La macchina, una specie di siluro bianco e lucido, la investì in pieno. Il corpo della vecchia volò in aria, ricadde, rimbalzò sull’asfalto per due, tre volte. Alla fine restò immobile e contorto, accartocciato come un ragno nero.
L’auto non accennò neanche a rallentare, tentò di curvare per imboccare Via della Penitenza ma la curva era troppo stretta e la macchina troppo veloce. Le gomme persero l’aderenza sulla strada. Si andò a schiantare contro il muro di fronte, proprio sull’angolo della chiesa dedicata alle puttane di Roma, con un fragore di ferro e vetro che costrinse Adele a lasciar cadere a terra le sue buste e a portarsi le mani sulle orecchie.
Rimase in quella posizione, immobile, mentre alcune persone accorrevano sul luogo dell’incidente. Tra queste, Antonio che arrivato alla sua altezza le si fermò accanto. – Adele, ha visto che roba? Come sta? L’ha sfiorata?
Adele si tolse le mani dalle orecchie. Il mondo riprese a rumoreggiare. – No, sto bene, grazie. Vada ad aiutare quel poveretto!
- Quell’idiota, vorrà dire! Meriterebbe di esserci rimasto! – Ma si affrettò a raggiungere il gruppo che s’era radunato intorno all’auto incidentata. Stavano aiutando ad uscire dall’abitacolo deformato un ragazzo con il volto insanguinato. Non sembrava in punto di morte.
Nessuno, invece, pareva essersi accorto del corpo devastato della vecchia, rimasto al centro della strada. Un fagotto di membra e ossa contorte. Che però continuavano a muoversi. Come un fascio di serpenti che tentasse di districarsi da un complicato groviglio.
Un ritardatario nei soccorsi passò praticamente su quanto restava della vecchia senza neanche accorgersene. I suoi piedi affondarono tra le ossa spezzate che biancheggiavano miseramente esposte. L’uomo proseguì tranquillamente la sua corsa verso il culmine dell’incidente, senza rallentare. Si trascinò dietro filamenti di carne e sangue.
Adele non si scompose. Sapeva che era una finzione. Sapeva che non era possibile.
I fantasmi sono già morti. Non sanguinano. Non gli si può spezzare le ossa.
La vecchia intuì il suo pensiero, aprì gli occhi e la guardò. La sua testa  spuntava bianca e apparentemente intatta dai resti del corpo maciullato. Le sorrise, sempre senza denti.
- Oh, vaffanculo! – esclamò Adele. E tornò a visualizzare la sua porta. Con più determinazione stavolta. La maniglia. Tirò. Sentì una lieve resistenza. Aumentò la leva. Chiuse con forza. Bam!
La vecchia non c’era più. La strada era deserta.
Era tornata dietro la porta. Lì da dove venivano tutti loro.


3

Adele Halbritter era l’ultima superstite di una famiglia in cui nessuno aveva mai alimentato la speranza di perpetuarne il nome. Suo padre aveva vaghe radici austriache che non si era mai curato di certificare. Era sceso da Pola, con i suoi genitori, alla fine della guerra, insieme ai profughi che abbandonavano la penisola istriana, allora ancora italiana, nelle mani dei soldati slavi di Tito. Era figlio unico. Bello, colto, ma senza una lira. Sua madre era stata invece l’ultima rampolla di un ramo minore della famiglia Sforza, una delle genealogie più nobili della capitale, la cui dote era consistita nella palazzina seicentesca in cui Adele viveva oltre che in un discreto capitale oculatamente investito in azioni vincolate.
C’era stato un fratello, una volta, molto più grande di lei, ma era morto in un incidente stradale quando Adele era ancora piccola. Non c’erano altri eredi o parenti. Adele era sola. Tutto sommato autosufficiente. Ma soprattutto sola.
     Non parlando, naturalmente, dei Sognanti. Contando i quali la sua vita poteva dirsi, al contrario, affollata.
     Adele sapeva che si trattava di persone morte e non addormentate. Ma aveva iniziato a chiamarli in quel modo da bambina e l’abitudine era rimasta. Era stato suo padre, dal quale sapeva di aver ereditato quella strana facoltà, che aveva dato loro quel nome.
     La prima volta che ne ricordava la percezione aveva sei anni. Una brutta caduta le aveva causato la distorsione del polso destro e una fastidiosa fasciatura oltre a una specie di confino in camera sua. Niente scuola, se non altro. E giornate noiose infilate una dietro l’altra. Un pomeriggio, sua madre s’era affacciata annunciandole che due amiche della sua classe erano venute a trovarla. Le aveva fatte entrare e poi s’era occupata d’intrattenere le mamme che le avevano accompagnate. In camera di Adele, però, erano entrate tre bambine, non due. Una di loro, una ragazzina che non aveva mai visto prima, era apparsa per ultima, s’era accucciata in un angolo, sorridendole, e aveva iniziato a giocare silenziosamente con una delle sue Barbie. Le altre due avevano preso a raccontarle delle loro giornate a scuola.
Il pomeriggio era trascorso piacevolmente. Ogni tanto Adele si rivolgeva con educazione alla bimba sconosciuta, che pensava fosse amica delle altre due, ricevendo in cambio muti ma cordiali sorrisi. Le due amichette, quando Adele tentava di strappare una parola alla terza ospite, si scambiavano furtive occhiate e condividevano improvvise e, per Adele, inspiegabili risate. Notò anche che nessuna di quelle due rivolse mai la parola alla piccola misteriosa ospite, il che le sembrò piuttosto scortese da parte loro.
     Quando nella stanza, alla fine, entrò suo padre, informandole che era arrivata l’ora di tornare a casa per tutte e che le loro mamme le stavano già aspettando, ad Adele non sfuggì la strana occhiata che il signor Halbritter scoccò alla terza bambina. Adele salutò le sue amiche, che però le parvero improvvisamente a disagio. Continuavano a fissarla con una nuova espressione. Un atteggiamento che Adele non aveva mai notato prima e che in seguito avrebbe imparato a conoscere molto bene. Poi le bambine uscirono, ad eccezione della sconosciuta che continuò a giocare imperterrita con le sue bambole.
     Adele la fissò. Per la prima volta avvertì che c’era qualcosa di strano in quella ragazzina. Il suo piccolo cuore iniziò a battere con più forza.
     Papà aveva fatto uscire le amichette e le aveva affidate alle due mamme che, davanti alla porta d’ingresso, continuavano a chiacchierare amabilmente con la signora Halbritter, splendida e incurante padrona di casa. Quindi era rientrato in camera con un’aria che Adele, se avesse avuto una maggior proprietà di linguaggio, avrebbe senz’altro definita furtiva. S’era chinato sulla piccola silenziosa ospite. Adele era rimasta a guardare affascinata, sapendo che quello che stava accadendo non poteva essere considerato normale. Negli anni a venire, avrebbe modificato decisamente la propria interpretazione del termine “normale”, ampliandone i confini fino a limiti impensabili per la maggior parte delle persone comuni. In quel momento era, invece, tutto nuovo.
     Franco Halbritter sembrava impegnato in una sussurrante conversazione con la sconosciuta. A distanza di tanti anni, Adele, pur avendo una perfetta memoria delle immagini di quanto avvenuto, non era mai più riuscita a ricordare le esatte parole utilizzate da suo papà. Ne rammentava solo il senso generale.
     L’uomo stava chiedendo alla bambina se per piacere poteva tornare nel suo letto del grande sonno. La piccola sembrava non volerne sapere, e suo padre, pur insistendo, non alzò mai la voce. A un certo punto lo vide chiudere gli occhi. Le sembrò che stesse dicendo qualcosa, una specie preghiera mormorata sulle labbra. Lo vide sussultare. E la bambina sparì. Successe proprio come uno di quei trucchi che si vedevano, a volte, nei programmi in TV. Di lei le rimasero impressi i begli occhi tristi, che le sembrò fossero gli ultimi a scomparire del tutto. Ma avvenne tutto molto velocemente e non avrebbe potuto dirlo con certezza.
     Suo padre si rialzò, le diede un bacio sulla fronte e uscì dalla stanza. Non le fornì alcuna spiegazione.
     Solamente più tardi, con il buio inoltrato e la mamma certamente a letto, lo vide tornare e sedersi sul bordo del suo lettino. Adele lo aspettava. Capì che era arrivata l’ora delle spiegazioni e si sorprese a scoprire che, in fondo, lei sapeva già quello papà stesse per dirle. Quasi tutto, per lo meno.
     Suo padre le spiegò così che quella bambina che era apparsa come per incanto in camera sua apparteneva ad una categoria speciale di persone. Le chiamò “i Sognanti”. Si trattava di uomini o donne o bambini che colti da una strana e misteriosa malattia s’erano improvvisamente e inconsapevolmente addormentati e adesso passavano il tempo a sognare. Sognavano così forte e con tale intensità che a volte uscivano dai propri sogni e andavano in giro per il mondo a fare le cose di cui da svegli amavano occuparsi. Naturalmente i loro corpi di carne e ossa restavano lì dove s’erano addormentati e quello che Adele aveva potuto vedere era solo l’immagine del vero aspetto della piccola Sognante. Il loro  involucro era fatto della sostanza dei sogni, quindi, e i Sognanti non potevano toccare né farsi toccare dalle persone Sveglie. Non potevano dunque fare del male né potevano subirlo. Erano solo immagini ad occhi aperti. A volte fastidiosi ma mai pericolosi. Ah, c’era un’altra cosa. Nessuno poteva vederli o percepirne la presenza. A parte alcune persone speciali, molto poche per la verità. Una era lei, Adele. E anche il suo papà aveva il potere di vederli. Non sempre, ma abbastanza spesso.
     In quel primo e purtroppo ultimo discorso, papà aveva volutamente omesso qualche informazione. Non le aveva detto che i “Sognanti” erano in realtà i morti, anche se Adele aveva intuito la verità. Né ebbe mai la possibilità di spiegarle la ragione di quel sotterfugio. Adele immaginò, col tempo, che suo padre volesse avvicinarla alla realtà del suo potere a piccoli passi. A sei anni il concetto di morte è un’idea vaga e imprecisa e probabilmente il signor Halbritter desiderava che la figlia mantenesse un rapporto equilibrato con il pensiero della fine. Suo fratello più grande, inoltre, era morto da meno di due anni e a casa loro la sua scomparsa aveva cambiato un po’ tutto. La parola stessa, “morte”, era stata bandita dalla famiglia Halbritter. La trovata dei Sognanti doveva essere stata una soluzione poetica e temporanea al problema.
     Suo padre però non le disse tutta la verità. E Adele imparò a sue spese che i Sognanti potevano interagire fisicamente con l’ambiente dei vivi. Alcuni di loro potevano persino fare del male. Intenzionalmente.
La morte, comunque, nominata o meno, continuò imperterrita a far visita alla sua famiglia. Franco Halbritter subì un infarto fatale circa due mesi dopo quella lezione sui Sognanti. Adele non lo rivide più. Dopo. E dovette affrontare quella sua facoltà completamente sola. Non ne parlò mai neanche con sua madre. La sua mente giovane ma intuitiva le suggerì sempre di non farne parola con nessuno. Chi avrebbe potuto capire? Come avrebbero potuto non fraintendere? Lo sguardo delle sue amiche mentre parlava con la piccola Sognante era rimasto scolpito in maniera indelebile nella sua mente.


4

La casa in cui era sempre vissuta, al civico 231 di via della Lungara, nel quartiere Trastevere, era una palazzina che si sviluppava su tre piani ricavati da una struttura originaria del XVII secolo. L’edificio faceva in realtà parte del più vasto complesso della splendida Villa Farnesina. Adele abitava ed era proprietaria della parte della casa che si affacciava sulla Lungara mentre la parte posteriore, che guardava al grande giardino che circondava la Villa – ora di proprietà anch’essa dell’Accademia dei Lincei - era stata abbandonata e murata da tempo. Nonostante ciò la parte di sua proprietà era sempre molto grande. Sua madre le aveva raccontato che molti anni prima Guglielmo Marconi in persona aveva affittato la loro abitazione e vi aveva dimorato per un po’.
Adele utilizzava esclusivamente il piano terra e l’ultimo piano della casa, dove dormiva e trascorreva gran parte delle sue giornate, potendo contare complessivamente su 9 stanze e tre bagni, decisamente al di sopra delle sue esigenze. Il piano terra ospitava un grande salotto, una cucina enorme e altri due locali, tra cui uno studio fornito di una ricca biblioteca, che teneva sempre chiusi. Il secondo piano, che in genere attraversava soltanto quando saliva o scendeva (velocemente) le ampie scale interne, era una teoria di stanze, chiuse da tempo, ai lati di un corridoio in cui Adele non ricordava di aver messo piede da anni. Il tutto era ancora in buone condizioni perché Maria, una collaboratrice a ore, si occupava quotidianamente delle pulizie e di verificare le eventuali riparazioni da far eseguire. La casa era stata una volta splendida, e di questa bellezza conservava alcuni affreschi al secondo piano e stucchi e modanature preziose in angoli inaspettati. Ma naturalmente un’essenza di abbandono e di una generale trascuratezza sembrava trasudare dalle stesse mura. L’isolamento in cui Adele aveva vissuto in tutti quegli anni aveva come infettato l’edificio e i suoi ambienti. Anche illuminandola a giorno quella palazzina sarebbe sembrata buia.
     Ad Adele questa condizione, sua e della casa, stava bene. Non soffriva di solitudine, non ambiva all’interazione sociale. Non avvertiva la mancanza di una compagnia stabile e quotidiana forse perché non ne conosceva la natura. Non era stupida, anche se a volte sapeva di aver bisogno di tempo per elaborare un’idea o predisporre una strategia, che si trattasse di decidere cosa comprare per cena o di quale colore scegliere le tende. Sapeva bene che la maggior parte delle persone, là fuori, vivevano e si alimentavano di rapporti e connessioni, tra di loro e con il resto del mondo. Amicizie, matrimoni, solidarietà sembravano il mastice che manteneva vivo l’universo sociale. Ma queste interazioni, aveva avuto modo di vedere, non implicavano necessariamente la felicità. Non le sembrava, osservando gli altri, che la vita fosse più facile se affrontata in compagnia. Anzi, i rapporti che gli altri costruivano intorno a sé, le pareva producessero più dolore che serenità. C’erano fior di fiction e film a testimoniarlo. E lei era una spettatrice affamata e attenta. E allora perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua studiata solitudine? In conclusione ad Adele la sua vita piaceva. E anche se c’erano cose che le mancavano (il sesso, qualcuno con cui condividere le risate davanti ai talk show del sabato sera, una mano che le grattasse il prurito tra le scapole ) tutto sommato preferiva che nulla mutasse.
     Anche quella patina di oscurità che gravava sulla casa, come un finissimo velo di sudario, non le dava affatto fastidio.
     Certo, c’era il problema dei Sognanti. Ma quello, in qualche modo, pensava di averlo risolto.
     Adele aveva sempre avuto la certezza che quella prima chiacchierata di suo padre sui Sognanti avrebbe dovuto essere la prefazione a un discorso molto più ampio. Una specie di introduzione a un manuale di istruzioni che Franco Halbritter aveva intenzione di farle studiare. Purtroppo il tempo gli era improvvisamente mancato. Il dono, che probabilmente le era stato tramandato, era rimasto privo di spiegazioni e s’era concretizzato in un mistero che Adele avrebbe imparato a conoscere negli anni senza l’aiuto di nessuno. Suo padre, per lo meno, non era diventato un Sognante, se n’era andato là dove vanno le anime che decidono di non infestare le case o le persone, e Adele s’era dovuta raccapezzarsi da sola. Non era stato facile.
     Non ricordava, ad esempio, il momento in cui aveva trovato la soluzione della porta. Le sembrava di rammentare che era avvenuto guardando un film, tanti anni prima. Era ancora una bambina. I Sognanti che all’inizio si erano manifestati quasi con timidezza (la bambina che suo padre aveva cacciato e che non era più tornata, un uomo che la guardava dalla finestra durante la notte, e la sua finestra era a venti metri dal suolo, una bella donna che sembrava attenta a cosa sua madre preparasse per cena, alla sera, e che le sorrideva soddisfatta) e che almeno nei primi anni non avevano mai tentato di interagire con lei,  col tempo s’erano fatti più audaci e più fastidiosi. Adele pensava fosse per via di quella specie di potere che con la maturità s’era rafforzato e come un radiofaro aveva iniziato a mandare segnali sempre più forti. O forse tra i Morti – ché aveva capito da molto trattarsi di questo, altro che persone che sognavano – c’era stato una specie di passaparola. Oppure la spiegazione era ancora altrove, in una di quelle pagine del libro delle istruzioni che suo padre non aveva avuto modo di consegnarle. Fatto sta che, raggiunti i sedici anni d’età, i Sognanti affollavano letteralmente la sua vita.
     Si svegliava con loro, andava a scuola camminando tra di loro, sbrigava le sue faccende sotto il loro sguardo, mangiava e dormiva senza mai essere persa di vista dai loro sguardi privi di espressione. Capitava che a volte li confondesse con i vivi. Si mescolavano agli altri con facilità. Nessun tremolio o evanescenza che li tradisse. Riusciva a capire di avere a che fare con uno di quei fantasmi solo quando notava che nessun altro li vedeva.
Non poteva davvero interagire con loro. Ci aveva provato, senza risultato. I suoi Sognanti non parlavano e quando lei cercava di comunicare sembrava non capissero. Non la sentivano. Non avevano intenzione di farsi sentire. Erano come pesci in un acquario in cui nuotava anche lei. Si limitavano a seguirla, a girare per casa, a guardarla. Quasi sempre con quell’aria assente. Raramente le indirizzavano un sorriso, un ghigno, una linguaccia una volta.
Aveva anche tentato di documentarsi. Qualche libro di spiritismo, riviste che trattavano di queste materie. Invano. Un po’ perché la sua pigrizia mentale le impediva di concentrarsi seriamente su una materia così controversa e complessa. Accidenti, esisteva una bibliografia talmente sterminata e Adele, al secondo mattone su “Parapsicologia e Aldilà” aveva capito che quella non era la strada giusta. E poi, la maggior parte di quelle pubblicazioni parlavano di quanto fosse difficile per un medium o un sensitivo riuscire a contattare con successo il mondo dei defunti. Facevano tante storie per un po’ di ectoplasma spuntato dalla narice di quel tale o per un tavolino che ballava come in un film di Walt Disney che a Adele veniva francamente da ridere. No. Quei libri non parlavano dei Sognanti. Parlavano di trucchi e illusioni. Nessuno possedeva una capacità pari alla sua.
     Non le venne mai in mente di parlarne con qualcun altro, di cercare aiuto da qualche parte. Quella fu l’unica tentazione che non la tentò mai. Lo sguardo dei compagni di classe o di quelli che, per un caso, l’avevano vista mentre tentava di parlare con un Sognante o si scansava al suo passaggio era già abbastanza mortificante e l’aveva condannata per i primi anni. Non avrebbe mai fatto l’errore di confidarsi con chiunque. Su quel fronte era sola e sola sarebbe restata.
     Col tempo decise di lasciar perdere, di abituarsi all’idea che la sua vita privata non fosse poi così privata. In fondo i Sognanti non sembravano volerle far male. La maggior parte delle volte sembravano addirittura disinteressati a lei.
     Poi qualcuno di loro passò il limite. Tentò di contattarla. Goffamente. Come se anche loro l’avessero considerata, sino ad allora, una seccatura da sopportare, e poi, improvvisamente, qualcuno si fosse chiesto: ma chi è questa creatura qui? Posso parlarle? Posso tentare di toccarla?
     Qualche Sognante ci provò.
     Qualcuno ci riuscì.
     Non fu piacevole.
     A quel punto, Adele, che non era tipo da spaventarsi, comprese che la situazione le poteva sfuggire di mano. Sua madre, nel frattempo, era morta anche lei. E anche lei s’era ben guardata di andarla a trovare come Sognante. D’altronde, anche da viva, non è che si sperticasse in coccole e abbracci. Adesso Adele era rimasta davvero sola. Per modo di dire. E doveva pensare a difendersi.
     L’idea le venne così, all’improvviso. Forse s’era addormentata sulla scena di un film, alla TV, che trattava un argomento simile. Le pareva di ricordare qualcosa. Fu certa, però, all’istante che quello poteva essere un tentativo serio. In fondo, se la sua mente era in grado di vedere quei fantasmi forse poteva anche modificare, in qualche modo, il loro comportamento. Aveva già provato a cacciarli, con urla, strepiti,  comandi mentali tanto silenziosi quanto feroci. Ma era stato inutile. Forse la strada da percorrere era un’altra.
     E allora Adele immaginò. Immaginò l’esistenza di quegli esseri, sul loro stesso piano. Li immaginò come suo padre li aveva descritti. Sognatori che non sanno di sognare. Che vivono in un sogno non loro. E allora, se questo è il mio sogno, sono io che detto le regole. Sono io che costruisco il mondo.
     Adele, semplicemente, creò una porta. Non si limitò a pensarla. La fece proprio. Anche se interamente all’interno della sua mente. Scelse il legno, una quercia robusta che immaginò tra tante in un bosco dentro la sua testa. La sradicò, la tagliò, la piallò, la toccò mentre si trasformava in quello che voleva. E poi la modanò, curando ogni singolo intaglio, ogni linea e disegno. Quando la porta fu pronta, cercò il pomello adatto. Puro ottone, un saliscendi elegante ma non troppo chiassoso. E una chiave robusta, di quelle d’una volta. La scelse tra molte. Nell’emporio che aveva nella testa non c’era limite alla fantasia.
     Ci impiegò tre giorni e tre notti, ma alla fine la porta fu pronta, così come la voleva lei, bella e forte. Nessuno, vedendo quel capolavoro di falegnameria, avrebbe mai pensato di forzarla. Era uno splendore. Ed era sicura.
     Il resto fu facile. Pensò a lei e ai Sognanti. Li pensò oltre quella porta, in una regione che non conosceva e che non voleva conoscere. Là da dove provenivano. Nel posto che spettava loro.
     Li immaginò dietro quella porta magnifica.
     E poi la chiuse.
     Con due mandate.
     Con sua sorpresa, il trucco funzionò. I Sognanti bussarono, scossero la porta, si arrabbiarono, la minacciarono, la blandirono. La porta rimase chiusa. Adele provvide ogni giorno a controllarla.
     Certo, a volte capitava che qualcuno di loro sgusciasse via, riuscisse ad aprire in qualche modo la maniglia, nonostante le mandate di chiave che lei aveva dato. Era un fatto raro. Ma poteva accadere. Come quella mattina, in cui la vecchia sporca era riuscita in qualche modo ad eludere la sorveglianza della bella porta – ed era una porta di vero massello, nessuna imitazione del legno – ed era uscita. A meno che il fantasma della poveretta non provenisse da qualche altra parte. Adele, infatti, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare di averla mai vista prima. Eppure pensava di conoscere tutti i “suoi” Sognanti. Da dove sbucava quella megera senza denti?
     Certo, rifletté, se la vecchia non proveniva dal gruppo imprigionato dietro la porta il fatto avrebbe potuto essere preoccupante. Non aveva idea di cosa significasse, ma ne percepiva l’anomalia. E tutto ciò che usciva dalla normalità poteva diventare pericoloso.
     Comunque fosse andata, si consolò, adesso la vecchia Sognante era finita dietro la porta.
     Perlomeno la vecchiaccia avrebbe trovato compagnia.


5

Adele aveva sempre pensato – con un’ironia tutta sua – che il campanello dell’ingresso fosse stato ideato per risvegliare i morti. Urlò, quel pomeriggio, più che suonare e, emergendo da un colloso dormiveglia che sembrava volerla tenere attaccata alla poltrona, Adele si domandò chi potesse accanirsi con tanta insistenza a un citofono. Non era giornata di pulizie; una visita di Maria non era prevista. Era tardi perché fosse il postino e pensò che avrebbe essere soltanto uno di quegli invadenti rappresentanti di elettrodomestici che attraversavano il quartiere come battitori in una caccia grossa. Lasciò quindi suonare e cercò di riannodare il filo del programma che stava seguendo alla TV prima che precipitasse in quel sonno impastato. Sky mandava in onda un drammone alla Rosamund Pilcher, girato e recitato da legnosi tedeschi, non certo i più adatti interpreti di britannici intrecci amorosi. Era giunta al momento in cui, prima o poi, quel tipo di storie immancabilmente arrivava. Una scogliera in Cornovaglia, lui e lei finalmente abbracciati e l’idea elettrizzante che da un momento all’altro qualcuno di loro potesse precipitare.
     Il campanello suonò per la terza volta.
     I venditori porta a porta erano spesso invadenti. Adele non li sopportava e soprattutto non sopportava la propria incapacità di cacciarli via una volta che avesse aperto e li avesse lasciati parlare. Però ricordava un paio di occasioni in cui il rappresentante di turno era un bell’uomo. Di una volta, in particolare, permaneva nella sua memoria il sogno a occhi aperti che s’era concessa mentre il commesso viaggiatore le spiegava il funzionamento eccezionale del Vorwerk Folletto che le stava mostrando. Nella sua immaginazione le mani del tizio smettevano improvvisamente di maneggiare l’aspirapolvere e iniziavano a frugarle tra le gambe. Aveva sorriso inebetita a quell’uomo per tutto il tempo della visita, anche se poi non aveva acquistato nulla. Aveva poi incamerato con cura quella fantasia erotica, riponendola nello scomparto dei pensieri audaci. Uno scrigno mentale cui teneva abbastanza, quasi quanto la porta dei Sognanti. Era una zona della sua mente (e del suo corpo) che aveva imparato a sollecitare nei momenti più solitari. Quelli in cui il desiderio fisico diventava improvvisamente struggente, doloroso e inevitabile.
     Alla fine decise di andare ad aprire. Magari lo scomparto delle fantasie si sarebbe oggi arricchito di una nuova eccitante esperienza.
     Non erano rappresentanti maschi. La delusione dovette trasparire con chiarezza dal suo volto, perché una delle due donne che la guardava, ferma sulla soglia di casa, si preoccupò.
     - Si sente male?
     Adele girò la testa dall’una all’altra. Quella che aveva parlato era graziosa, molto giovane, riccioli biondi che cadevano sulle spalle di un vestitino forse un po’ troppo estivo. La sua compagna, decisamente più anziana, aveva i tratti marcati di una straniera. Occhiali dalla montatura spessa e pupille minuscole che la misero a disagio. Entrambe portavano dei libri che tenevano come fossero neonati.
     - Cercate qualcuno?
     La bionda rispose con un’altra domanda:- Lei ha paura?
     Adele non capì subito.
     La bionda sorrise. – Ripeto, lei ha paura?
     - Di cosa?
     - Di quello che accade nel mondo, per esempio. Ha paura della malvagità?
     - Certo.
     - Ha paura che qualcosa di brutto possa capitarle? Ha paura di morire? Di essere uccisa?
     Adele tentò, debolmente, di chiudere la porta. Sorrideva perché non voleva sembrare maleducata, ma aveva capito di aver sbagliato. Non avrebbe dovuto rispondere al campanello.
     - Non chiuda. Non è di noi che deve aver paura… ma del mondo. Forse possiamo aiutarla!
     - Mi dispiace. Non… non ho tempo adesso…
     Ma la donna le impediva fisicamente di chiudere il portone. Era ritta sulla soglia, come sull’attenti, sfoggiando il suo sorriso di marca.
     - Se vuole possiamo semplicemente lasciarle uno dei nostri opuscoli. – Le mostrò il materiale che aveva in mano, offrendoglielo. Adele non si mosse e la donna alla fine tornò ad abbassare le braccia, ritirando l’offerta. – Non vogliamo importunarla, ma siamo nuove di questa zona e cercavamo la possibilità di conoscere i nostri nuovi vicini.
     Le indicò vagamente una direzione, fuori da lì. – Abbiamo appena inaugurato un nuovo tempio, qui nel quartiere. E volevamo invitarla a venirci a trovare… - Improvvisamente ci riprovò e stavolta le infilò a forza, in mano, una rivista di poche pagine. Sulla copertina, verde oliva, campeggiava il volto di Gesù. Un uomo si sollevava dal sepolcro e Adele non capiva se vi era rappresentata la resurrezione di Cristo o quella di Lazzaro.
     - Va bene, - mormorò, accostando la porta di un altro paio di centimetri. – Ci penserò. Grazie.
     - Forse suo marito è interessato alla nostra testimonianza, - disse la più vecchia. Non era straniera. Aveva la voce priva di intonazione. Piatta come la sua espressione.
     - Non sono sposata.
     - Mi scusi, - guardava dietro di lei, verso le scale. – Allora, forse le altre persone che vivono in casa, qui con lei…
     Adele stava per risponderle ancora, quando ebbe la sensazione che la donna si riferisse a qualcuno di preciso. Si voltò. Il pomeriggio inoltrato aveva consentito nuovamente alle ombre di accamparsi in casa sua. Oltre a quelle, non c’era nulla alle sue spalle. Ebbe però la sensazione che la donna con gli occhiali qualcosa avesse visto.
     - A chi si riferisce? – le domandò.
     La biondina intervenne nervosamente, lanciando un’occhiataccia alla sua compagna. – Perdoni la nostra invadenza… la mia consorella si riferiva a quell’uomo che era con lei, sulle scale… Comunque non si preoccupi. Le lasciamo i nostri opuscoli e lei ci pensi su…
     Ah, ecco.
     Adele aprì la porta, all’improvviso, scostandosi. – No. A pensarci bene, non ho nulla da fare. Possiamo parlare adesso, se volete.
     E le fece passare.


6

Più tardi, interrogandosi, non riuscì a trovare una vera buona ragione perché le avesse fatte entrare in casa. Si disse che era perché aveva veramente voglia di parlare con qualcuno. Parlare davvero, non limitarsi a uno scambio di battute prive di significato. Conversare. Cosa che non avveniva da tanto tempo. O forse aveva accettato la loro visita perché, in fondo, quei discorsi su Dio e la Bibbia e i Grandi Misteri dell’Universo le interessavano davvero. C’era sempre un paragrafo, in quelle prediche, che parlava della morte, e della morte Adele aveva desiderio di saperne il più possibile. O forse era stata spicciola curiosità. Pericolosa curiosità. Alle sue spalle doveva essersi manifestato un Sognante (quella porta cominciava a perdere la sua efficacia, e forse c’era da preoccuparsi  davvero), e pareva che le due donne l’avessero visto. Era una novità. Altri che sperimentavano le sue allucinazioni? Voleva sapere se c’era possibilità che non fosse l’unica.
     Nonostante ciò, quando le ebbe fatte entrare provò la sensazione di aver compiuto un errore.
     Le aveva fatte accomodare nel salotto, accendendo un paio di luci dietro sinuose lampade a stelo. Non s’arrischiò a illuminare tutta la stanza e le ombre continuarono a sgusciare tra le gambe delle sedie e sotto i mobili in stile impero. Ma le donne non parvero a disagio. S’erano sedute come se la loro vera abilità fosse proprio quella: prendere possesso di ambienti altrui senza esitazione. D’altro canto quelle due pretendevano di spacciare la Verità e quello era un lavoro che solo con la totale assenza d’imbarazzo si portava a termine.
     Parlava soprattutto la biondina. Cianciava di argomenti che Adele faticava ad afferrare, ma sembrava conoscere il fatto suo. Parlava del libero arbitrio, e del peccato originale senza il quale vivremmo, adesso, in un luogo meraviglioso, senza dolore né fame. E dell’infinito amore di Dio che non può permettere il male. Proprio non può. Le sembravano le stesse cose che diceva il prete dal pulpito.
     La sua collega stava per lo più zitta, salvo quando decideva di rafforzare il discorso della bionda con qualche citazione. “Ecclesiaste, capitolo 9, versetto 10”, diceva all’improvviso. O “Deuteronomio, capitolo 30, versetti 19 e 20”. Annuendo con la gravità necessaria al caso. Quando accadeva, Adele le lanciava un’occhiata di falsa ammirazione a cui l’occhialuta rispondeva con la sua incapacità espressiva. Poi la donna tornava a guardarsi intorno. Sembrava più interessata alla casa che alla sua ospite. Indagava.
     Adele chiese a un tratto se volessero bere qualcosa.
     - Oh!, -esclamò l’instancabile parlatrice, - sarebbe un sollievo una bibita fresca!
     Anche Adele sapeva che la parola “bibita” non si usava più da qualche decennio.
     Si alzò e andò nella cucina a preparare qualcosa.
     La parlatrice continuò a intrattenerla, alzando lievemente il volume della voce.
     - Forse ti stiamo inondando di troppe informazioni e magari avresti bisogno di pensarci un po’ – le urlò dal salotto.
     - No, no, - mentì Adele, urlando a sua volta e versando in tre bicchieri di Coca-Cola, ghiacciata dal frigorifero. – M’interessa quello che dite… è che sono così ignorante in certi argomenti!
- Ma no! – la donna fece un gesto nell’aria, con la mano, per scacciare quell’idea assurda, mentre Adele rientrava e posava il vassoio con la Coca su un basso tavolino. – Avresti solo bisogno di frequentare il tempio. Magari adesso c’è qualche argomento che t’interessa in particolare... Qualcosa che vorresti chiederci.
     Adele si sedette, col suo bicchiere gelato in mano. Un’immagine le esplose, improvvisamente, nella testa. La porta, la sua porta. Non sembrava davvero chiusa.
     - Allora? – la esortò la bionda, sorseggiando la sua bevanda. Arricciò le labbra.
     - Com’è fredda!
     - Allora… allora… - Adele finse di pensarci. – Allora, ecco. Cosa ne pensa Dio dei morti?
     Le due testimoni si scambiarono un’occhiata.
     - I morti?
     - Sì. Quella storia dell’inferno e del paradiso. E’ lì che andiamo quando moriamo? Al catechismo ci raccontavano qualcosa del genere.
     La bionda sorrise, rinfrancata. Era tornata su un terreno che le era congeniale.
     - Non esiste nessun inferno, perché Dio è amore. Il concetto stesso di tormento eterno disonora Geova che non farebbe mai soffrire nessuno. E non esiste paradiso perché Dio non giudica le anime. Neanche quelle che gli hanno disubbidito.
     - Giovanni, capitolo quattro versetto otto – disse l’occhialuta annuendo.
     - Ti abbiamo sorpreso?
     - Un po’ - ammise Adele oltre il bordo del suo bicchiere. La porta continuava a occupare i suoi pensieri.
     - Dio ci promette un mondo pieno d’amore e privo di morte, se è questo che volevi sapere.. ma è un mondo di là da venire. Se non fosse stato per il peccato originale commesso da Adamo ed Eva, quel paradiso sarebbe la terra nella quale viviamo. Proprio qui e proprio ora.
     - Sarebbe bello, - disse Adele. – Un mondo pieno di amore… e senza la morte?
     - La morte è l’afflizione che dobbiamo subire per colpa della coppia originale. Ma non devi temerla!
     - No?
     - Ma no! – Le due donne sorridevano. Il sorriso della matrona con gli occhiali non era per niente rasserenante, però. Non pareva abituata a distendere le labbra se non per citare la Bibbia.
     - Ecclesiaste, capitolo nove, versetto cinque – disse infatti.
     - Salomone –citò a sua volta la donna con i capelli biondi. – I morti non sono consci di nulla. Capisci cosa significa?
     Adele scosse la testa. Quella dannata porta sembrava proprio aperta adesso. Vedeva il buio che filtrava dallo stipite discostato.
     - Ma è evidente, cara. La morte è come un lungo sonno. Niente altro. Questo dice la Bibbia. Ecco perché non dobbiamo temerla. Avresti paura di una bella dormita?
     - Effettivamente no.
     - Ecco. Appunto. La morte è solo un sonno senza dolore, senza sofferenze, senza preoccupazioni. Le dottrine che insegnano altro non dicono il vero. Fraintendono. Dimenticano il senso della Bibbia. L’insegnamento biblico non ammette obiezioni: quando moriamo non ci siamo più. Non esiste anima, non esiste spirito immortale che sopravviva al corpo.
     - No?
     - Assolutamente no. Dio dice ad Adamo: Polvere sei e in polvere tornerai. Gen…
     - Genesi, capitolo tre, versetto diciannove – la interruppe la sodale che si guadagnò, finalmente, un’occhiata gelida dalla bionda.
     Adele scuoteva la testa. – Non è molto confortante… - disse. – Un sonno eterno e senza sogni…
     - Al contrario. E’ molto rassicurante. Ci chiediamo spesso cosa vi sia dopo la morte e se i nostri cari soffrano. Sappiamo invece che i morti non soffrono. Non possono sentire male e non possono farcene. Non hanno bisogno di noi o delle nostre preghiere. Dormono… e basta.
     - Non possono comunicare con noi – aggiunse sorprendentemente l’altra donna. – E noi non possiamo comunicare con loro.
     - E’ molto semplice, - disse la bionda. – E’… davvero tranquillizzante, non trovi Adele?
     Ma la porta, maledetta lei, stavolta era aperta davvero. Non c’era più solo un filo di oscurità tra lo stipite e la maniglia. Ma un vero e proprio baratro. Da lì sarebbe potuto uscire chiunque.
     Adele si guardò intorno, allarmata.
     - Qualcosa non va? – La bionda la fissava perplessa. La sua compagna, invece, non guardava nella sua direzione. Ma oltre di lei. Un pallore inaspettato sulle sue labbra secche.
     - C’è qualcuno – disse.
     Adele non si voltò. Voleva vedere l’espressione sui volti delle due donne.  Si sorprese ad essere più incuriosita che preoccupata.
     - In casa non c’è nessuno, - le informò. – Vivo sola.
     - C’era un uomo, sulle scale, prima, - dissentì la bionda, aumentando leggermente tono e volume della voce.
     - C’è qualcuno anche adesso, - mormorò la più anziana, continuando a fissare un punto dietro le spalle di Adele, verso le scale che portavano ai piani superiori.
     La bionda guardò nella stessa direzione, poi strinse le spalle in un gesto d’insofferenza. Lei evidentemente non vedeva nulla, oltre al grumo di ombre che si addensavano all’altezza del primo scalino. – Lei vive davvero da sola in una casa così grande? – domandò, ignorando volutamente  la sua amica che continuava a fissare il vuoto.
     Adele trovò tutto ciò improvvisamente divertente.
     - Ho ereditato la casa da mamma… una casa vecchia… e mi hanno detto piena di fantasmi!
     - Li ha mai visti? – domandò l’occhialuta senza distogliere lo sguardo dal punto in cui s’era incagliato.
     - I fantasmi non esistono!- proruppe la bionda, e lanciò saette in direzione della consorella. Eresia. – Lo abbiamo ripetuto finora alla nostra ottima Adele. Quando moriamo cessiamo di esistere, stabilisce Geova. La morte è il contrario della vita. Non c’è nulla di noi che sopravvive alla morte del copro. Non esiste un’anima immortale e dunque i morti non possono tornare a…
     - … tormentarci, - finì per lei la compagna, lo sguardo sempre annichilito, - Ecclesiaste capitolo nove, versetti cinque, sei…
     - … e dieci…
     - … e dieci. Chi è quell’uomo che mi fissa?
     Adele e la bionda finalmente guardarono nella direzione in cui gli occhi sbarrati della donna si perdevano in un’espressione di confusione e paura.
     Era un uomo, certamente, ma la figura non era così dettagliata come avveniva di solito. Era alto, senza capelli, vestiva di scuro, e le fissava con due occhi neri. Altri particolari non sembravano a disposizione dei presenti. Adele non riusciva a capire se era per colpa della sua vista, della penombra che regnava nella stanza o se il Sognante fosse proprio così. Grigio. Sfuocato. Anche se non del tutto. Gli occhi erano sufficientemente dettagliati. E anche le mani, notò. Aveva dita affusolate che teneva distese. Le unghie erano curate ma forse troppo lunghe per un uomo. Nelle mani e negli occhi sembrava che si concentrasse tutta la visibilità di quell’apparizione. Adele poteva notare le ciglia fini e nerissime, e le vene che solcavano le sue nocche. Il resto della figura era più evanescente. Incolore.
     Qualcosa le disse che quello non era un Sognante.
     Era… un’altra cosa.
     La bionda distolse finalmente lo sguardo. – Insomma, di che uomo stai parlando? – Ma le tremava la voce.
     Adele e l’occhialuta si scambiarono un messaggio silenzioso: sembrava che solo loro potessero vedere l’apparizione.
     - Davvero non lo vedi? – le domandò l’amica.
     - Non vedo cosa? La smetti per favore, mi stai spaventando!
     - E’ lì, davanti a noi.
     Adele si sporse verso di loro: -  Forse volete un altro po’ di Coca?
     Le due donne la guardarono per la prima volta con quell’espressione che, in passato, Adele aveva imparato a subire. Ma non le importava. Improvvisamente sentiva il bisogno che quelle due se ne andassero. Non aveva paura di quello che sarebbe successo dopo. Non temeva l’apparizione (anche se ammetteva che era un po’ diverso dalle altre volte, c’era qualcosa di brutto che emanava da quell’uomo, qualcosa che non aveva mai avvertito prima) aveva timore di quello che avrebbero potuto fare le due donne se fossero state colte dal panico. In casa sua!
     - Forse dovreste andarvene, - suggerì.
     La donna con gli occhiali si alzò. Tremava ma sembrava più indignata che spaventata.
     - Chi è quest’uomo? – domandò ancora.
     Anche la bionda si alzò. – Forse ha ragione la nostra amica Adele… forse dovremmo andarcene..
     - Chi è?
     La bionda urlò: - Cazzo non c’è nessuno! Non vedi che non c’è nessuno  cazzo! – Poi si portò una mano alla bocca, sorpresa lei per prima per la propria foga.
     Adele si lasciò scappare un risolino. L’occhialuta la fissò con ferocia:- Tu sai chi è… cos’è quella cosa? Dimmelo per amore di Dio!
     Fece un passo verso di lei e Adele pensò che volesse picchiarla. La bionda la intercettò, prendendola per un braccio: - Chiara la vuoi smettere! Sei impazzita?
     Ah, Chiara. Chiara vede i Sognanti, pensò Adele.
     Chiara alitò sulla faccia della compagna: - Lo hai visto anche tu, prima, mentre eravamo sulle scale. Non dirmi che non l’hai visto!
     La bionda, di cui Adele avrebbe voluto sapere il nome, sembrò perplessa. In effetti qualcosa doveva aver visto anche lei. Ma adesso no. Adesso la sua preoccupazione era la consorella che sembrava impazzita.
     La figura d’uomo, intanto, restava immobile sul primo gradino della scala. Ma qualcosa accadeva alle sue spalle. Adele se ne accorse e per la prima volta sentì anche lei se non il morso della paura, il suo tocco leggero e deciso.
     Il primo volto che si affacciò era bianco, piccolo e grinzoso. Un viso di bambino vecchio. Denti scoperti da un sorriso crudele. E occhi chiusi.
     Anche Chiara lo vide e urlò. La sua compagna sussultò, allontanandosi da lei come se avesse scoperto che stava abbracciando un animale furioso.
     - Tu sei il demonio! – gridò la donna indicando Adele. E poi all’amica che la fissava inorridita: - Non hai ancora capito? Siamo entrate nella casa del diavolo!
     Si voltò, cercando d’orientarsi, poi tirando con sé l’altra, si precipitò verso le scale che portavano al piano terra, all’uscita.
     Adele non tentò di fermarle. Guardava la figura scura e la piccola faccia bianca che era apparsa dietro le sue gambe. Non c’erano solo loro adesso. Il buio sembrava aver generato nuovi mostri. Alle spalle dell’uomo scuro si affollavano altre anime. Sembravano strisciare giù dalle scale. Silenziose. Contorte. Inerti. Grigie come l’uomo che le aveva invitate.


7

Per quanto Adele aumentasse il volume della televisione ( la voce della giornalista in diretta dalla striscia di Gaza tentava di raccontare l’orrore della guerra alla sua interlocutrice in studio e ai telespettatori del notiziario delle 20 ) non riusciva a sopprimere il brusio che veniva dal piano di sotto. Forse, sospettava lei, perché i fantasmi non parlavano alle sue orecchie ma direttamente al suo cervello. E così per quanto tentasse, ormai da ore, di sovrastare quell’incomprensibile bisbigliare con il rumore dei propri pensieri o, più banalmente, con l’audio della TV, si rendeva conto pian piano che era impresa impossibile. I morti non parlavano. Non lo facevano mai. Ma il frastuono delle loro anime era davvero insopportabile.
Per la prima volta, Adele si trovava davanti a fatti nuovi che non sapeva come affrontate.
     La paura dei Sognanti era scomparsa da anni. Sin da bambina aveva imparato a convivere con quella dannazione, all’inizio versando lacrime di vero terrore nel buio della sua cameretta (perché sua mamma proibiva di tenere accese le luci, la notte, fossero pure quelle di un’abat jour infantile), mentre figure di uomini o di donne o di bambini silenziosi la osservavano dal fondo del letto, poi convincendosi che le uniche parole lasciatele in eredità da suo padre corrispondessero a verità. I Sognanti non possono toccarti, non possono farti del male. Ma era stata comunque dura. Alla paura era subentrata, col tempo, la rassegnazione. Infine l’indifferenza. La creazione della Porta e della Maniglia avevano fatto il resto. Non senza qualche soddisfazione. Chiuderli dentro era il massimo del divertimento in certe giornate deprimenti e cupe.
     Adesso, all’improvviso, tutto era stato rimesso in gioco. Ed era tornata la paura. O un sentimento che le somigliava. Non sapeva cosa pensare di quello che provava, in realtà. La figura di uomo – sempre nero e offuscato, alto, calvo, gli occhi fissi nei suoi – era di per sé inquietante. Era preoccupante che non capisse cosa volesse. Per la prima volta si domandava cosa veramente pretendessero quegli spiriti e se c’era qualcosa che potesse fare, a parte tentare – ormai vanamente – di ricacciarli dietro la porta di quercia.
     Ora il notiziario aveva lasciato il posto a qualche tipo di documentario raffazzonato con vecchi spezzoni di varietà. Una tristezza infinita che Adele soppresse cambiando spietatamente canale. Trovò un network satellitare che qualche volta trasmetteva programmi interessanti. Cercò di non sentire i lamenti che provenivano dal basso e sperò di incocciare in un sonno riparatore.
     I fantasmi s’erano concentrati, stranamente, nel piano di mezzo della sua casa, là dove non metteva piede da anni, forse vagamente consapevole che in quel corridoio buio e in quelle camere inutilizzate e vuote il potere dei Sognanti si facesse più forte. Aveva sempre evitato di fermarsi in quelle stanze, a cui solo Maria accedeva per le pulizie, e soltanto adesso se ne chiedeva la ragione. Sì, la casa era enorme, per lei, ma avrebbe potuto chiudere il piano superiore, invece che creare quella specie di vita a triplo strato. Il primo e il terzo piano invasi dalla luce e dalla vita, e quel piano di mezzo sospeso tra l’abbandono e l’oscurità. E adesso lì s’erano insediati i Sognanti sfuggiti alla sua Porta: il tizio alto e misterioso e tutti quegli altri che l’avevano seguito.
Mentre si rifugiava nella sua stanza da letto, Adele ne aveva contati almeno sei, ma non dubitava fossero di più. Li aveva solo intravisti, per la verità, ma le era bastato. Teste enormi su corpi sgraziati, deformità, arti dinoccolati e troppo corti o troppo lunghi. Mostri. Niente a che vedere con le creature che avevano infestato la sua vita negli ultimi trent’anni. Questi appartenevano a una razza diversa.
     Questi non erano Sognanti. Ma spiriti cattivi.
     La domanda tornava a vibrarle nella testa. Perché erano usciti adesso allo scoperto? Cosa volevano da lei?
     Intanto, per qualche ragione, non avevano abbandonato le scale e quel maledetto piano di mezzo. Lei li aveva solo sfiorati, fuggendo in camera sua, dopo che le due testimoni religiose erano andate via. Dietro la porta della sua camera – reale ma meno rassicurante di quell’altra sepolta nella cantina della sua mente –li aveva sentiti ammassarsi ai piedi delle scale. E poi era iniziata quella specie di litania. Non parole vere, da udire con i propri timpani. Ma un borbottio psichico. Un grattare alle pareti della sua coscienza che prima o poi l’avrebbe fatta impazzire.
     Andate via, pensò. Andate via, per piacere.
     Sullo schermo della TV apparve l’annuncio del programma che stava per seguire.
     RESTATE CON NOI
     FRA UN MINUTO TORNA GHOST CHRONICLES
     CON DAVID TOWNSEND
     Rimase sbalordita. Piacevolmente, perché era uno dei suoi programmi preferiti. Ma colta dall’aspetto comico della questione. Tra poco sarebbe andato in onda il famoso show di David Townsend, l’uomo che andava a caccia di fantasmi in tutta l’America.
Mentre i suoi, di fantasmi, grattavano inquieti fuori della porta.


8

Mi hanno assicurato che la tua casa è infestata, Adele.
     Non lo so, David. Davvero, non so cosa dire…
     Non devi dire nulla. Basta che tu stia vicino a me. Così. Più vicino, honey, stai attaccata al mio braccio come fosse la cosa più importante della tua vita. Poi stringi forte e non perdere mai la presa. Puoi farlo per me, honey?
     Oh, sì, posso farlo David. Mi piace quando mi chiami honey!
     Lo so. Sono americano. Adesso pensiamo a non farci male. Mi dicono che le presenze in questa casa siano malevole. Spaventano le persone. Forse possono fare del male…
     Oh, no. David. Io non credo. Cioè, non è mai accaduto prima… non mi è mai successo di…
     Ma tu ti fidi di me, Adele?
     Oh Dio… sì… da morire…
     E allora permettimi di non sottovalutare la questione. Due donne sono state terrorizzate ieri da alcuni… spiriti malvagi… così li hanno definiti…
     Ah! Quelle due, dici? Ma erano solo due… due rompicoglioni, David!
     (David ride divertito)
     Scusami. Non dico parolacce, in genere.
     Non importa, honey. Intanto vediamo di capirci qualcosa. Sistemo i miei apparecchi e poi vediamo se riusciamo a evocare uno di quei fantasmi.
     Va bene.
     (David si occupa dei suoi apparecchi. Sistema un paio di telecamere a raggi infrarossi. Poi accende e sintonizza un qualche tipo di marchingegno che Adele gli ha visto utilizzare nel suo programma. E’ così emozionante starlo a guardare da vicino. Partecipare con lui a una delle sue famose cacce al fantasma! E in casa sua per giunta!)
     Questo pensiero la distrae. C’è qualcosa che non torna. David Townsend è nella sua camera da letto e sta cercando di individuare qualche presenza disincarnata, come ama dire lui, un segno d’infestazione, una testimonianza di vita dall’aldilà. Ma non funziona così. Non a casa di Adele, perlomeno. Lei lo sa. Lui no. Lui è bravo (é anche bello, se per questo) ma il massimo che riesce a catturare nei suoi programmi televisivi è qualche ombra fugace, un sospiro smorzato al registratore, un battito che potrebbe appartenere a chiunque e a qualunque cosa. A casa Halbritter le cose vanno diversamente. Qui ci sono i Sognanti. Qui le presenze sono tante, troppe, e affollano le scale e le camere vuote dell’intero edificio. Mormorano, nel buio, con voci che non sono voci. Grattano alla porta, con unghie che non sono unghie. E non si fanno fotografare dagli apparecchi sofisticati di un qualsiasi acchiappa-fantasmi. No. Loro si fanno vedere (e sentire) solo dai prescelti.
     Ma prescelti per cosa?
     E poi adesso, le cose sono cambiate. C’è un Uomo Grigio, laggiù, sull’ultimo gradino. E guarda in alto. Guarda verso di loro, anche attraverso le mura che non li proteggono. Non possono proteggerli.
     E quell’Uomo, chiunque sia, ha deciso di fare qualcosa. Cosa? Non è dato sapere. Però sta salendo adesso, lentamente, un gradino alla volta. Adele lo sa, lo avverte (e lo avvertono anche le altre anime irrequiete, le sente mentre fremono, e sbattono, e saltano impazienti, e aprono bocche, e urlano, e lo seguono, perché lui è…)
     Sei pronta, honey? Spegniamo le luci?
     Oh, no, David. Non sono pronta. Non spegniamo le luci.
     (Ma David non la sente)
     Non aver paura, cara. Io sono esperto in queste cose e so cosa fare. Come ti ho detto, tu stai vicino a me, stringimi, stringimi forte, e non aver timore. Lo spettacolo sta per iniziare.
     No, David, non farlo, no, no, NO!
     (Adele a questo punto si rende conto che sta sognando. E la sua voce non esce come dovrebbe. Ma è lo stesso. Non cambierebbe nulla anche se potesse urlare. L’Uomo Grigio arriva. L’Uomo Grigio bussa)


9

I suoi occhi aperti le dissero che era sveglia. La sua mente, benché annebbiata, le confermò che aveva smesso di sognare. Eppure era come stesse ancora dormendo.
     L’Uomo Grigio bussava.
     E nel contempo era in piedi, nell’angolo della stanza intento a fissarla.
     - Oddio mio! – esclamò, tirandosi a sedere sul letto e combattendo contro un improvviso attacco di asfissia. Lottò per alcuni interminabili secondi contro l’assenza di ossigeno, col petto che s’infiammava e gli occhi che premevano per uscire dalle orbite e scoppiargli in volto. Poi riuscì a ritrovare la strada. L’aria tornò a inondarle i polmoni e Adele si ritrovò a tossire e a sputare spruzzi di saliva fra le lenzuola disfatte.
     Nell’angolo, lì dove la figura la guardava, restava ancora uno scampolo di oscurità. Che si affrettò a evaporare.
     Ma lui c’era, fino a pochi istanti prima. C’era!
     Il sogno in cui era stata presa continuava ad artigliarla. Finché non capì che il suono che sentiva, non era il bussare lugubre dell’Uomo Grigio che voleva entrare nella sua camera, ma il campanello di casa.
     Squillava insistente. Qualcuno si stava attaccando a quel pulsante.
     La TV era ancora accesa, anche se l’audio era al minimo. Una giornalista intervistava alcuni politici. Sorridevano tutti probabilmente per qualche battuta. L’ultima cosa che ricordava prima d’addormentarsi era il programma di David Townsend. Ecco perché l’aveva sognato.
     Spense la televisione, mise i piedi nudi a terra e indossò l’accappatoio che teneva sempre accanto al letto, pronto per la doccia mattutina. Dal piano di sotto continuavano a suonare al campanello e sembrava non avrebbero desistito facilmente.
     Uscì dalla sua stanza, scalza, cautamente, aspettandosi di trovarsi di fronte l’Uomo Grigio o qualcuno dei suoi freaks dalla faccia bianca. Il sole filtrava dai mille interstizi di un edificio fin troppo vecchio e malato e come sempre giocava con le ombre e con le forme della casa. Adele si affacciò dalla cima delle scale. Il piano di mezzo era, come sempre, più buio degli altri ambienti. Per la prima volta trovò inquietante attraversarlo.
     Chiuse gli occhi. Controllò la porta.
     Sembrava serrata. La maniglia risplendeva come l’avesse appena lucidata. Ma non ricordava di aver fatto rientrare quelle creature nel posto nero in cui meritavano di stare. Anche se la porta era chiusa non voleva dire che i Sognanti fossero rinchiusi là dietro.
     Questi non sono Sognanti. Toglitelo dalla testa, cara, prima che puoi se non vuoi farti davvero male. Questi non vengono dal posto in cui stanno i tuoi fantasmi innocui. Questi sono di un’altra razza!
     Il campanello iniziò a suonare senza interruzioni. Adele aprì gli occhi e affrontò le scale di casa. Quel suono la faceva impazzire. Quando attraversò il piano di mezzo avvertì nettamente un brivido lungo la schiena e si sforzò per non voltarsi. Non voleva dare questa brutta abitudine al buio. Immaginò però mani con dita lunghe e fredde afferrarle improvvisamente un braccio. Raggiunse il piano terra senza incidenti. Ma tremava.
     Si accostò alla porta e cercò di superare il frastuono di quel campanello maledetto. Era la seconda volta in due giorni. La sua intimità stava cadendo in pezzi.
     - Chi è? – urlò.
     Il suono s’interruppe.
     - Polizia, signora. Apre gentilmente questa cazzo di porta. Per piacere?
     Socchiuse l’uscio, incuriosita da quel misto di volgarità e irritazione. Sulla strada, due uomini. Uno sui cinquanta, capelli brizzolati e un viso su cui si distendevano noia e rassegnazione in egual misura. L’altro decisamente più giovane, capelli troppo lunghi e troppo spettinati. Ma un volto interessante. Si sarebbe aspettata che fosse stato il più vecchio a parlare, ma invece prese la parola quello giovane: - Mi scusi, ma è un’ora che stiamo attaccati a questo campanello!
     Adele non comprese subito. Poi immaginò che l’uomo si stesse scusando, forse, per aver usato la parola “cazzo”.
     - Dormivo, - spiegò, anche se non c’era niente da spiegare. I due uomini guardarono entrambi l’ora al proprio orologio, come se fosse necessario controllare un alibi. – Ieri sera sono stata poco bene – aggiunse, e anche di questa informazione sapeva che non c’era francamente bisogno.
     Il più anziano finalmente le mostrò un tesserino.
     - Siamo del distretto di zona, - le spiegò con un tono di voce più ragionevole di quell’altro, - commissariato Trastevere, e avremmo bisogno di parlarle.
     - E’ successo qualcosa? – domandò. Non aveva idea del perché fossero da lei.
     - Parliamo qui?
     - Volete entrare?
     - Solo se non disturbiamo.
     Il giovane sembrava più impaziente e scalpitava sulla strada. Ma Adele colse anche il suo sguardo. Si accorse che l’accappatoio che indossava lasciava intravedere qualcosa di più del consentito, ma non ebbe coraggio di stringere la cintura alla vita. Le parve troppo ostentato come gesto. Sarebbe stato come sottolineare il fatto che sotto fosse nuda. Però si fece da parte per farli passare. Le sembrò di vivere un deja vu. Le due testimoni di Geova, ieri sera. E adesso due poliziotti. Erano più di quanti avessero visitato la sua casa negli ultimi due o tre anni. D’istinto lanciò un’occhiata alle scale. Nessuno. Solo la luce del giorno che gocciolava sui gradini antichi.
     Li precedette, sentendo lo sguardo del poliziotto più giovane su di sé. Il fremito che avvertì tra le gambe le parve un brutto segnale. Si sentì più nuda e più esposta di quanto in realtà non fosse. E non aveva ancora consumato la sua doccia. Né si guardava allo specchio dal giorno prima. Una terribile mancanza. Un’afflizione. Era accettabile? Le occhiate di quell’uomo dicevano di sì. Ma cosa vedevano realmente quei due uomini sulla sua faccia o nel suo corpo? Segni? Cose brutte o cose belle?
     Questi due non erano come le stupide del giorno prima. Questi erano pericolosi. Potevano vedere al di là del suo aspetto. Potevano guardarla dentro.
     Li condusse in salotto dove i due, in piedi, non nascosero la loro sgraziata curiosità. Osservarono l’ambiente. Con calma. Come se lo stessero studiando.
     Il più anziano, alla fine, le sorrise – Scusi la nostra invasione. Sono l’ispettore Carboni, questo è l’agente Serra. Vorremmo scambiare solo due parole… avere qualche informazione…
     - Lei qui ci vive da sola? – domandò l’agente Serra, interrompendo il superiore, il quale continuò però a sorridere, guardandola. Solo la piega delle sue labbra svelava l’irritazione per l’irruenza del suo collega.
     - Vivo da sola.
     - Non è sposata?
     Adele piantò i suoi occhi in quelli dell’uomo. – No.
     Serra sostenne il suo sguardo ma arrossì lievemente.
     L’ispettore tentò di riprendere in mano la situazione: - Ci perdoni, ma una persona ha presentato un esposto nei suoi confronti.
     - Un esposto?
     - Sì. Be’ effettivamente voleva denunciarla… ma non c’erano estremi per una denuncia…
     - Per adesso… - precisò minacciosamente l’agente Serra.
     - Una denuncia?
     - … e quindi abbiamo raccolto un esposto. Un atto dovuto.
     - Contro di me?
     - Conosce la signora Chiara Innocenti?
     Adele scosse la testa.
     - E tale…? – guardò Serra.
     - Ilaria Bianchi – disse il collega.
     - Ecco.
     - No. Chi sono?
     - Due signore che ieri sono state in casa sua, secondo il loro racconto. Invitate in virtù della loro missione… di fede. E sono state molestate… secondo il loro racconto…
     Adele sorrise. – Oh, quelle.
     - Quelle.
     Indicò le due poltroncine sulle quali, meno di dodici ore prima, le signore Chiara Innocenti e Ilaria Bianchi avevano posto le proprie terga, sorseggiando Coca Cola, prima di essere molestate da alcuni dei fantasmi che infestavano la sua casa (secondo il loro racconto).
– Volete sedervi (anche voi)?
     I due uomini si accomodarono sulle stesse poltrone.
     - Qualcosa da bere? O è vero che in servizio non potete?
     L’ispettore scosse la testa: - Ci sbrigheremo.
     Adele si accomodò sul divanetto di fronte alle poltrone, velluto rosso stinto ma pulito. L’orlo dell’accappatoio salì sopra il ginocchio e lo sguardo dell’agente Serra non si scollò dalla sua pelle forse troppo bianca. Probabilmente lo disgusto, pensò lei. Si sa che il disgusto affascina.
     -Dunque, signora Halbritter – l’ispettore Carboni richiamò la sua attenzione. – I fatti sono semplici e noi ci limitiamo a verificare qualche dato. Poi lei potrà, se vuole, presentare un contro-esposto o una querela.
     - Va bene.
     - Voglio dire, nel caso che la versione delle due signore risulti falsa e quindi diffamatoria.
     - Va bene.
     - Dunque… le due esponenti… anzi, la sola Innocenti, perché l’esposto è a sua firma…
     - Quale delle due?
     - Come?
     - Chi è delle due la signora Innocenti? Quella con gli occhiali?
     Carboni sembrò perplesso. – Io non lo so… non ero presente alla redazione del verbale…
     - Sì. Quella con gli occhiali. La più vecchia! – disse l’agente Serra.
     - Oh, - Adele sorrise. E incredibilmente le sorrise anche lui. Sembrava aver dismesso la maschera da sbirro rude e si godeva lo spettacolo del suo accappatoio che non ce la faceva a restare chiuso. Quel ginocchio che prendeva aria. Quel principio di coscia. Chissà cosa pensava il poliziotto.
     - Comunque, - riprese l’ispettore, - è stata solo una delle due a firmare l’esposto perché effettivamente le molestie si sarebbero dirette solo verso di lei.
     - Ma quali molestie? Io le avrei molestate? – Adele immaginava cosa le due avessero scritto nella loro denuncia. Ma voleva sentirselo dire da quei due uomini. Dalla sua bocca la parola fantasma non sarebbe mai uscita. Non voleva essere presa per matta.
     L’ispettore si sporse verso di lei: - C’era un uomo, ieri, qui da lei, signora Halbritter? Perché la signora Innocenti avrebbe visto un uomo… che le… hmm… mostrava le sue parti intime…
     - E si toccava, - aggiunse l’agente Serra, senza spegnere il suo sorriso. Un bel sorriso per la verità. Labbra importanti e denti bianchi. Adele adorava le dentature curate.
     - Ha capito quello che le ho detto, signora Halbritter? – disse l’ispettore.
     - Certo. Sì. – Ah, quei denti così dritti e candidi. – Ma io vivo sola, non c’è nessuno in questa casa oltre a me. Le due signore devono essersi sbagliate.
     E la cosa strana era che lei non aveva visto l’Uomo Grigio fare quelle brutte cose. Forse era stata l’immaginazione della signora Chiara Innocenti a fare il resto. O quel fantasma appariva a ognuno in maniera diversa.
     - Nessun uomo, è sicura? – insisteva l’ispettore. - Voglio dire… un amico che è venuto a trovarla.. un parente che ieri passava di qui…
     - Non ho famiglia. E non ho amici.
     Carboni sembrò riflettere su quella dichiarazione che avrebbe potuto sembrare patetica se Adele non l’avesse pronunciata con totale serenità. Tornò a guardarsi rapidamente intorno. Forse cercava tracce di presenze maschili.
     L’agente Serra sembrava invece divertirsi. – Tutta sola in questa casa così grande?
     - Sì. Tre volte a settimana c’è una donna che mi aiuta nelle pulizie. E Carlo qualche volta che aggiusta le cose rotte…
     - Ah, Carlo! – esclamò l’ispettore. – Forse c’era lui, ieri!
     - Oh no, non vedo Carlo da un paio di mesi. Ieri ero sola, ispettore. E ricordo la visita di quelle due signore… un po’ strane mi sono sembrate… forse si sono sbagliate nell’indicare questa casa? So che vanno di porta in porta a parlare con la gente. Parlano con tante persone.
     - Effettivamente, - Carboni rifletteva.
     - E poi, mi scusi. Che vuol dire che quell’uomo ha mostrato loro le parti intime? Si è denudato?
     -Praticamente.
     - E lo ha visto una sola di loro?
     - Così raccontano.
     - E sarebbe avvenuto qui. Con me presente?
     - Facciamo così, - Carboni si batté una mano sulla coscia. Sembrava aver preso una decisione. – Lei, appena può, viene al distretto. Le leggiamo l’esposto nel dettaglio, così come prevede la legge. Lei presenta le sue obiezioni. Le mettiamo per iscritto. E la finiamo là.
     - Va bene.
     - Adesso la generalizziamo compiutamente e poi non la disturbiamo più.
     - Va bene.
     - Può darci un suo documento d’identità?
     - Certo. – Adele si alzò. – Vado a prenderlo. E’ di sopra, in camera da letto.
     I due uomini si alzarono con lei e l’ispettore le fece un cenno d’assenso col capo.
     Mentre Adele saliva le scale, provò un brivido gelido lungo la schiena. Non per i fantasmi. Avvertiva i due poliziotti che la osservavano. Forse sbirciavano le sue gambe che fuoriuscivano da quel maledetto accappatoio troppo corto e troppo vecchio. Ma ormai non poteva farci niente. E poi stavano per andarsene.
     Attraversò il piano oscuro senza neanche sentirsi minacciata. I Sognanti e l’Uomo Grigio, ovunque fossero, adesso non erano lì.
     Il portadocumenti era nel primo cassetto di un settimino del diciottesimo secolo che secondo quanto le aveva detto sua madre era appartenuto proprio a Guglielmo Marconi nel periodo in cui aveva abitato là. L’aveva lasciato quando era andato via. Marconi tornava spesso nei racconti della mamma che diceva di averlo conosciuta, da piccola. Aveva diretto l’accademia, proprio davanti casa.
     C’era stato anche un uomo che si era interessato alla casa e al periodo in cui Marconi vi aveva vissuto. Diceva che era per un libro che stava scrivendo. Quando era successo? Qualche mese prima. Perché aveva un ricordo così sbiadito di quel tizio e delle sue domande? Era tutto un po’ offuscato, come facesse parte di un sogno.
     Non si accorse della presenza alle sue spalle finché non ne vide l’ombra stagliarsi contro la parete. Si voltò, già sapendo chi si sarebbe trovata davanti, mentre il cuore le accelerava in petto.
     L’agente Serra le sorrideva con il suo sorriso irresistibile, a meno di venti centimetri da lei.
     - Mi scusi, non volevo spaventarla. Ma l’ispettore vuole che dia una controllata. Sa, se lei nascondesse un uomo e noi non ce ne accorgessimo, faremmo una bella figura di merda! Dopo quello stupido esposto, poi!
     Adele non rispose. Aveva ancora il portadocumenti in mano e non riusciva a distogliere lo sguardo dalle labbra del poliziotto. Le venne in mente Antonio mentre mangiava la sua uva. Il succo rossastro che gocciolava osceno dalla sua bocca in movimento. Quell’immagine l’aveva disgustata. Adesso però le labbra dell’uomo che aveva davanti non le ispiravano repulsione. Per niente.
     - Che donne stupide!
     - Come? – Le s’era chiusa la gola e faticava a rispondere.
     - Quelle due… donne stupide. Metterla nei guai senza un motivo!
     - Sono nei guai?
     - Eh, forse…
     E si fece più vicino.
     - E’ una casa grande, - commentò l’agente Serra, che con il mento ormai le sfiorava il naso. – E’ immensa. Potrebbe nascondere una decina di uomini e forse non li troveremmo mai!
     - Io… sono sola… - balbettò lei.
     - No. Adesso no. Adesso ci sono io con lei…
     - Sì. E’ vero.
     Gli occhi dell’uomo si spostarono da destra a sinistra. Forse non dimenticava mai di essere un poliziotto. Forse controllava la situazione. Adele era rapita dai suoi modi. Avrebbe dovuto dirgli di uscire. Ma non lo fece. Perché avrebbe dovuto? Era un agente di polizia. Era la Legge e l’Ordine. Era…
     Lui sollevò la mano destra, scostò l’orlo dell’accappatoio, e la posò sul suo seno. Adele rimase immobile, mordendosi il labbro. Sentì le dita di lui sulla pelle. Il capezzolo le divenne subito duro. E qualcosa si mosse dentro di lei, tra le sue gambe. Qualcosa di concreto e vivo, indipendente da lei. Il desiderio che diventava un animale vivo e si faceva nervoso, spasmodico.
     - Non ti dispiace? – le domandò lui, avvicinando le labbra alle sue e guardandola negli occhi. Odore di sigarette. Dentifricio. Eccitazione.
     Adele socchiuse gli occhi e aprì la bocca. Lui la raggiunse. Aveva una lingua aspra. E tutta quella saliva. Quasi la soffocava.
     Adele mugolò.
     - Non fare casino, - disse lui.
     Poi le aprì del tutto l’accappatoio. Lei lasciò fare. Era completamente priva di forze. Sentiva i muscoli liquefarsi, le gambe cedere. E il cuore batteva così forte che lui l’avrebbe sentito. E le avrebbe ripetuto “non fare casino”.
     Non ne farò.
     La schiacciò contro il mobile di Guglielmo Marconi. La mano destra non le mollava il seno. Anzi stringeva così forte da farle male.
     La mano sinistra la accarezzò giù, tra le cosce.
     - Cazzo, - esclamò lui senza smettere di baciarla, tanto che le parole uscirono gonfie e distorte, - cazzo se c’hai voglia!
     Capì cosa voleva dire. Non poteva impedire alla sua fica di bagnarsi. Non poteva nascondere la sua eccitazione.
     Mentre lui la pilotava verso il letto (e pilotare era il termine giusto, perché Adele si sentiva proprio come un’imbarcazione in alto mare, priva di controllo e alla mercé di onde alte e furiose) pensò ancora al proprio aspetto e a quello che lui avrebbe pensato di lei. Non del fatto che si stesse lasciando andare – di questo non gliene importava nulla – ma cosa avrebbe pensato del suo sapore? Come avrebbe trovato l’odore della sua pelle? Gli sarebbe piaciuto davvero entrare dentro di lei? Scoparla. Quella era la parola. Scoparla sarebbe stato abbastanza bello per lui? Non voleva deluderlo. Non voleva deludere nessuno.
     Stava ancora pensando a questo quando lo sentì penetrare. Esplose tutto, troppo velocemente, troppo intensamente.


10

Mentre l’agente Serra si muoveva sopra e dentro di lei, silenzioso a parte quel basso ringhiare che gli fuoriusciva dai denti stretti, Adele apriva e chiudeva gli occhi. Lo faceva assecondando il ritmo di lui. Il suo pene spingeva e le palpebre si sollevavano, gli occhi sbarrati a contenere il piacere. Il suo pene scivolava indietro, e le palpebre si chiudevano, pregustando la nuova spinta in arrivo. Le veniva così. Aprire e chiudere gli occhi. Entrare e uscire dal piacere. Per effetto del movimento, quindi, la visione della stanza, intorno a loro, sfarfallava. Come i frame di un vecchio film in superotto. Il soffitto bianco a cassettoni. Poi il buio. Ancora il soffitto. E il buio. Le pareti bianche con i quadri degli impressionisti che sua madre amava tanto. Il buio. Le pareti.
     Il buio.
     L’Uomo Grigio.
     Dietro le spalle del suo amante. In piedi. Sopra di loro.
     Il buio.
     L’Uomo Grigio.
     Ancora l’Uomo Grigio.
     Adele aprì la bocca, per urlare. Gridargli di andar via. Che non era giusto. Quello era il suo momento. Quello era il suo uomo, che la scopava, e lui e tutti gli spiriti che albergavano in casa sua, fuori o dietro la porta di quercia non dovevano permettersi. Non dovevano stare lì. NON DOVEVANO PERMETTERSI!
     L’agente Serra non si accorse di nulla e quando la guardò in faccia e la vide rossa e corrucciata fraintese e sorrise di compiacimento.
     - Ti piace? – le domandò, farfugliando per lo sforzo, inondandola di spruzzi di saliva caldi. – Ti piace?
     Ma Adele non si occupava più di lui. Fissava ormai senza battere le palpebre la figura alle sue spalle. Gli occhi nerissimi. E adesso anche un altro particolare si metteva a fuoco nella generale indeterminatezza dell’apparizione. La sua bocca. Carnosa. Molle. Non come quella dell’agente Serra, però. Questa era una bocca che non era fatta per baciare. I suoi denti non erano bianchi e puri.
     L’Uomo Grigio non era solo. Sotto il peso non da poco del suo amante, bagnata del sudore che le pioveva addosso in gocce salate, Adele faceva fatica a voltare la testa. Ma li vedeva lo stesso. Si tenevano a distanza, ai margini del suo campo visivo, come spaventati. E allo stesso tempo eccitati dall’amplesso che si consumava sotto i loro sguardi morti.
Erano tanti. Troppi, pensò lei. Non più Sognanti, indifferenti alla vita e ottusi, sostanzialmente innocui. Ma rapaci facce, dita inquiete, corpi solo abbozzati eppure vibranti di energia.
     L’Uomo Grigio li attirava, capì lei. L’Uomo Grigio si alimentava della loro forza.
     Tornò a guardarlo e lo vide avvicinarsi ancora, chinare la testa informe su di loro, come un entomologo curioso che osservi l’accoppiamento di due scarafaggi. Così vicino. Così attratto da loro.
     Adele aprì la bocca per urlare, avvertire del pericolo, ma proprio in quel momento l’uomo che la stava penetrando arrivò al proprio culmine. Posò la bocca sulla sua, sollevando tra i denti un lamento che doveva essere di piacere ma che a lei parve l’ululato di un animale ferito a morte. E nello stesso momento le esplose dentro, con una spinta che le tolse il fiato. Adele s’inarcò, accogliendolo, artigliandogli le spalle e cercando di allontanarlo il più possibile dalla figura che incombeva su di loro. Non fece in tempo.
     Fu un momento, uno soltanto. Ma le bastò per capire e per urlare.
     L’Uomo Grigio non era più dietro la schiena del suo amante. Ma era dentro di lui. Lo vide attraverso le iridi scure dell’agente Serra, che si dilatarono, diventando ancora più nere e insondabili. Lo avvertì nel tocco delle sue braccia e nell’irrigidirsi del pene dentro la sua vagina, che si fece gelido e sgradevole come fosse rivestito di carta vetrata. Lo annusò nel respiro che l’uomo, ormai posseduto, inalò nella sua bocca aperta. Sapore di rancido. Di abbandono.
     Adele scalciò, si dimenò, allontanandolo finalmente da sé. E nello stesso tempo si sfilò dal suo corpo, adesso pesante e inerte come quello di un moribondo. Rotolò lungo il letto disfatto e si lasciò cadere sul pavimento. Batté la schiena, e le natiche nude, in una aspra scossa di dolore, ma almeno si era sottratta a quella presa disgustosa. Sentiva ancora sulla pelle il contatto viscido di quella… cosa. E dentro il suo seme che iniziò a colarle lungo le gambe ritratte.
     L’uomo che l’aveva appena penetrata e che forse era ancora, in qualche modo, l’agente Serra, del Distretto di polizia di Trastevere, era rimasto da solo, fra le lenzuola. Quando lei sollevò la testa, per osservarlo oltre l’orlo del letto, lo vide rannicchiarsi contro la testiera. Il suo cazzo pencolava molle e le sembrò strano che poco prima quella cosa orribile l’avesse fatta vibrare di piacere.
     La stanza sembrava vuota, a parte loro, ma Adele notò le vaghe ombre sul soffitto, ritirarsi come nuvole cacciate dal vento, scomparire, come non fossero mai esistite.
     Anche l’Uomo Grigio era scomparso. Forse permaneva ancora un po’ nello sguardo folle e spezzato dell’uomo nudo dentro il suo letto. Ma solo un frammento. Che evaporò nello spazio di pochi istanti.
     - Che… che cazzo mi hai fatto? – L’agente Serra la guardava sbalordito e ferito. Si teneva le mani fra le cosce.
     Adele non rispose. Allungò una mano, raggiunse l’accappatoio che lui le aveva strappato di dosso, e si coprì come poté.
     - Che cazzo mi hai fatto? – ripeté l’uomo, senza evitare quel tono colmo di paura e il tremolio della voce. E il disgusto! Il disgusto che provava per lei e che traspariva dalla sua voce!
     Non sono stata io, avrebbe voluto dirgli. Ma credo che tu sia stato posseduto. Anche se per pochi attimi.
     Ma naturalmente non lo disse. Non disse nulla. E aspettò che lui si rivestisse e andasse via. Fuggisse, in qualche modo. Lasciandola di nuovo sola nella magnifica, accogliente e mai sopita casa Halbritter.


11

Ogni mattina, come sempre. Una doccia lunga, bollente, durante la quale la pelle diventa rossa. Le pare quasi di dover arrivare a sanguinare, per quanto si sforza di strofinare e strofinare.
     Una lunga pausa davanti allo specchio. Nulla sembra cambiato. E’ ancora lei, nonostante tutto. Ma forse qualcosa di diverso c’è. Una piega anomala del labbro. Una ruga di quelle che chiamano “d’espressione”. A parte questo, è lei, Adele.
     Non è brutta. Ma neanche bella. Nessuno si volterebbe a guardarla, girando la testa lungo la strada. Ma nessuno arriccerebbe neanche il naso fissandola in volto. E’ solo anonima. Non repellente.
     Nessun fantasma si affaccia oggi oltre la cornice della porta del bagno. E quell’altra, di porta, sembra ben serrata. Ha dato un’ulteriore mandata, per sicurezza. Non si sa mai. Ci sono cose, oggi, che ieri non pensava potessero accadere.
     Nessun Uomo Grigio. Tace. E’ scomparso. E’ tornato nel suo inferno. Chissenefrega. Adele non ha paura. Non ne ha mai avuta.
     Anche il piano di mezzo, sempre buio, è tornato a essere quello di sempre. Una zona della casa che lei non usa. Semplicemente. Porte chiuse. Vuoto. Silenzio. Odore leggero di muffa e naftalina. Ombre immobili.
     Questa mattina come ogni mattina.
     Perché nulla è accaduto.
     E nulla accadrà.
     E’ la sua vita. Lo saprà, no?

     Ma quando passò davanti ad Antonio, con la sua sporta della spesa, al ritorno dal consueto giro, colse il suo sguardo, e quel modo di passarsi la lingua sulle labbra, come se stesse assaporando ancora quegli acini d’uva zuccherina che le aveva rubato, qualche giorno prima.
     Adele gli sorrise. Ma lui manco ricambiò. Anzi, le sembrò che girasse lo sguardo dall’altra parte come fosse stato colto in fallo. Come se si vergognasse.
     Antonio? Non l’era mai sembrato tipo da vergognarsi di qualcosa. Allora forse c’era davvero qualcosa, in lei, che traspariva, che era impossibile non riconoscere? Forse l’assalto che aveva subito da quel poliziotto arrogante? Era così visibile che anche Antonio, in genere placido e indifferente, aveva notato i segni rossi sul suo collo, la vibrazione nuova del suo corpo. Ma no, non era possibile. Eppure…
     L’immagine di Antonio che le gridava “puttana” le graffiò la mente.
     Gli si avvicinò, anche se non era da lei. In genere amava stare a guardare gli eventi che accadevano, non viverli. Mai starci in mezzo. Ma le cose cambiavano, cambiavano rapidamente e lei non capiva perché. Questo la faceva star male. Quindi perché non doveva tentare di comprendere?
     Antonio, alla fine, non poté fare a meno di incrociare il suo sguardo e fu costretto a sorriderle. Un sorriso strano, non dei suoi. Era come se avesse perso tutto il suo smalto. Sembrava smarrito.
     - Buongiorno Antonio
     - ‘giorno Adele.
     Gli si piantò davanti. Entrava in quel momento nel Palazzo Corsini qualche sorta di delegazione. Una mezza dozzina di uomini e donne, elegantemente vestiti, aspetto e modi indaffarati. Chiacchieravano tra loro e non degnarono loro due di uno sguardo. Ma Antonio salutò deferente, facendoli passare. E ne approfittò:
     - Adele, mi scusi, ma stamattina è giornataccia.
     - Capisco, sì. Non vuole sapere cosa ho comprato oggi? Sa che ci sono le fragole?
     L’uomo sembrò non capire. Scuoteva la testa e ogni tanto indirizzava un sorriso di circostanza alle persone che attraversavano il grande portone.
     - Fragole, Antonio. Non vuole assaggiarne come ha assaggiato la mia uva?
     - La sua uva? Che sta dicendo, Adele?
     - La mia uva. Ne ha mangiato… l’è piaciuta… non si ricorda?
     - Veramente no… Mi scusi, ma ho davvero un mucchio di cose da fare!
     - Cosa c’è Antonio? Non le piaccio più?
     Antonio si fermò, sorpreso. Parve spaventato.
     - Di cosa sta parlando?
     - Di me e di lei. Non le piaccio più Antonio?
     - Ma… sì, lei mi piace… ma non capisco…
     - E’ successo qualcosa Antonio? E’ cambiata qualcosa? Perché io non comprendo cosa stia succedendo. La situazione sembra stia sfuggendo di mano a tutti. Anche lei, Antonio… anche lei ha qualcosa che non vuol dirmi!
     Adesso le pareva davvero inorridito. Era come se si fosse accorto anche lui che qualcosa stonava.
     La porta è rimasta aperta troppo a lungo, Antonio.
     - Adele, io non ho nulla da dirle. Io la conosco appena…
     - Mi conosce appena?
     - Sì. Cioè, un buongiorno e un buonasera. Anzi solo un buongiorno perché non l’ho mai vista fuori di casa se non la mattina. Ed è quello che ho detto a quei poliziotti, né più né meno…
     - A chi?
     Adesso Antonio era pallido e farfugliava. Non aveva più un grammo di quel fascino che Adele credeva di avergli notato. Non era più il romanaccio tosto e gagliardo che lei spiava da dietro le persiane socchiuse, sfiorandosi al solo pensiero del suo tocco rude quando non aveva altre fantasie cui attingere. Sembrava di più un portiere d’albergo di infima categoria, vile e ruffiano, che tentava di giustificare una sua mancanza.
     - Nulla! – giurò, - non ho detto loro nulla. Anche quando sono andati via e quello giovane sembrava fuori di sé… e mi hanno chiesto se davvero sapevo chi fosse lei… io non ho detto una parola! Io non dico nulla del vicinato… sono una tomba, Adele, glielo giuro!
     E cosa avrebbe dovuto dire? E cosa aveva raccontato “quello giovane” che sembrava fuori di sé? Che era una puttana? O forse che era qualcos’altro?
     Ci sono fantasmi, in quella casa. Cose maledette. E lei vi vive indisturbata e senza paura. Soltanto una strega potrebbe vivere in un posto simile.
     Questa è la casa del Diavolo, non l’hai capito? aveva urlato Chiara alla sua tremula consorella. E magari aveva ragione.
     Adele guardò verso la sua casa. La facciata era effettivamente tetra. Le mura scurite dal vento del Tevere. Le finestre chiuse. Lasciavano solo presagire gli ambienti interni. E chi li abitava.
     Tornò a guardare Antonio. Lui abbassò lo sguardo.
     - E’ così sta la questione? – gli chiese.
     - Che cosa? Quale questione?
     - Io sono la strega, Antonio?
     - Ma di cosa parla! Una strega?
     - Io sono la strega e quella è la casa del diavolo? – Indicò le sue finestre. Antonio seguì anche il suo sguardo e parve riflettere seriamente sulla faccenda. L’aspetto di casa Halbritter non aiutava. Sembrava un monolite di pietra grigia tra gli splendori di Villa Farnesina e di Palazzo Corsini. Una bruttura che solo Belzebù avrebbe potuto permettere di far spuntare tra monumenti così belli.
     Forse era vero. Le cose stavano proprio in quel modo.
     Adele fissava la sua casa. Le finestre del secondo piano erano doverosamente sprangate. Persiane serrate su quel corridoio triste e su quelle stanze ormai vuote a parte vecchi mobili e qualche quadro alle pareti scolorite e gli affreschi consumati sui soffitti alti. Adele guardava e vedeva, all’improvviso, non solo quanto la sua casa fosse brutta, ma anche quanto fosse… maligna. Ecco. Quella era la parola che cercava. Maligna.
     Ma come era successo? Non era mai stata così.
     Una delle finestre del secondo piano, l’ultima nell’angolo a sinistra si aprì lentamente. La persiana, che pure doveva essere chiusa, scivolò di lato, rivelando il mezzo occhio cieco della finestra dietro. Adele non vedeva bene. Le sembrava che qualcuno avesse appoggiato la fronte al vetro e la stesse guardando. Ma era troppo buio.
     - La vedi anche tu, Antonio? – domandò all’uomo che era rimasto imbambolato e imbarazzato accanto a lei. Lui non rispose, ma seguì il suo sguardo.
     - La finestra, Antonio. La vedi anche tu?
     - Quella aperta?
     - Sì. Ma non dovrebbe essere aperta.
     - Sarà stato il vento. O Maria che non l’ha chiusa bene. Oggi era il suo giorno, no?
     - No. Lo sappiamo tutti e due, vero Antonio?
     - Non so cosa rispondere…
     Un motivetto che Adele aveva già sentito si scatenò nelle tasche del custode e lui afferrò al volo, cellulare e occasione. Le chiese scusa con gli occhi e si allontanò per parlare al telefono.
     Adele tornò a guardare la sua finestra. La persiana era tornata a chiudersi. Nessuno dietro il vetro scuro a guardarla. Solo una facciata annerita dal tempo. Triste forse. Non maligna.


12

Avrebbe acceso la luce. Almeno questo. Avrebbe illuminato quella lingua scura di corridoio prima di mettervi piede. Sapeva che le cose che infestavano la sua casa e la sua vita non fuggivano davanti a una lampadina elettrica, ma ricacciare le ombre negli angoli le dava comunque un certo conforto. Non era paura, quella che avvertiva. Ma l’inquietudine di non sapere come comportarsi. Di non sapere con chi avesse davvero a che fare. Però quella era casa sua. Lo era sempre stata. E per quanto avesse rinunciato da tempo a vivere una vita normale – così dicevano le persone alla TV, una vita “normale” – non voleva dire che avrebbe rinunciato anche a viverla fra le mura che l’avevano vista nascere.
     Accese l’interruttore. Ma il corridoio mantenne il suo aspetto lugubre. Era come se la luce non riuscisse davvero a rischiararlo. Come se le pareti assorbissero energia e luminosità.
     Non c’era nessuno a ostacolarle la strada. Forse non c’era davvero niente. Anche se non ci contava troppo.
     Appena rientrata in casa aveva controllato dappertutto. Non c’erano Sognanti (non ne vedeva da un po’, in effetti, se considerava l’Uomo Grigio e la sua corte appartenenti a una razza differente). E anche la porta della sua immaginazione era ben chiusa. Per sicurezza Adele l’aveva aperta (nella mente, nella sua mente, era bene che lo ricordasse), aveva sbirciato dentro (senza naturalmente vedere nulla, dietro la porta non pensava vi fosse un vero spazio fisico, era più uno stato della coscienza, anzi delle coscienze) e poi l’aveva chiusa di nuovo. La sua mano mentale aveva afferrato la sua chiave mentale e l’aveva infilata nella serratura mentale. Aveva girato tre volte. Aveva sentito il clic del meccanismo che si chiudeva. Non c’era possibilità che qualcuno l’aprisse nuovamente.
     Fatto questo era salita al secondo piano. Là c’era il problema. Non dietro la sua porta di magnifica quercia.
     Sul lato destro del corridoio, quello che si affacciava su via della Lungara (e dove una persiana era stata aperta e richiusa da una folata di vento molto particolare) c’erano quattro porte per tre grandi stanze. L’ultima dava su un bagno che Adele ricordava rivestito di maioliche azzurre e con un’immensa vasca con piedini d’ottone a forma di zampe di grifone. Ma forse non erano zampe di grifone. Chi l’aveva mai visto un grifone? Era il bagno preferito da sua madre. La vedeva ancora là dentro, un braccio mollemente rilasciato al di fuori della vasca, i capelli che si allargavano sull’acqua alle sue spalle, e il suo sguardo sempre tiepido e compassionevole. Compassionevole per se stessa, non per la figlia sgraziata che la ammirava in punta di piedi nell’aria satura di vapore.
     L’altro lato del corridoio aveva solo tre porte. L’ultima era stata murata quando la casa era stata divisa in due. La parte dell’edificio che si affacciava sul giardino di Villa Farnese, e che non era proprietà degli Halbritter, era stata abbandonata da decenni. Dietro le pareti ricoperte di carta da parati una volta finissima e adesso solamente scolorita e triste, Adele immaginava gli ambienti chiusi, deserti e polverosi dell’ala che non apparteneva a lei. Forse era da lì che erano venuti quei nuovi fantasmi. Dalle interiora morte di ambienti dimenticati.
     Vuoi farlo davvero?
     Sì. Questa è casa mia.
     E allora non resta che entrare.
     Lo fece, e una nuova sensazione emerse. Fu come riappropriarsi di un territorio perduto. Come ritrovare un luogo della memoria. Eppure quel corridoio con le sue stanze lugubri era sempre rimasto lì e lei lo aveva visto e ignorato ogni giorno della sua vita. Non c’era nulla di nuovo. A parte le presenze che, pensava, si fossero rintanate laggiù.
     Proseguì lentamente, senza aprire le porte che le scorrevano ai lati. In fondo, di fronte a lei, una finestra che quasi aveva dimenticato. Accuratamente sprangata non faceva filtrare neanche uno scampolo di luce e laggiù, al buio, era praticamente invisibile dall’inizio del corridoio. Per questo ne aveva quasi dimenticato l’esistenza. Adesso, però, Adele la rammentava bene. Quando era bambina non era mai stata tenuta chiusa. Dava a sud-est e la mattina permetteva al sole di indorare tutto l’ambiente. Era una vera fonte di luce e calore verso la quale lei adorava correre, trent’anni prima, percorrendo quello stesso pavimento, per poi incollare il viso al vetro riscaldato. Da lassù poteva vedere la parte finale della Lungara, e la splendida Porta Settimiana dalla quale suo padre le aveva raccontato che i garibaldini erano entrati per invadere anche quella parte di città e scacciare i francesi. Se si sollevava abbastanza poteva scorgere un frammento di fiume che scorreva alla sua sinistra, appena oltre la rigogliosa vegetazione dei giardini di Villa Farnesina. Adesso quella vecchia breccia sulla città era solo uno spazio cieco, nero, dal quale penetravano polvere e piccoli animali. Eppure Maria puliva dappertutto. Perché quella finestra era così corrotta?
     La raggiunse. Sfiorò le assi che la inchiodavano.
     La luce si spense. Qualcosa fece vibrare il legno che sigillava la finestra. Forse il vento. Lo stesso vento che aveva aperto e chiuso una persiana.
     Adele si voltò verso l’oscurità. Non le piaceva avere il corridoio alle spalle. E adesso l’uscita era in fondo. Il resto della casa era ancora illuminato. Il buio era piombato soltanto lì, dove si trovava lei.
Le porte delle stanze erano tutte aperte.
Eppure non aveva sentito alcun rumore.
Doveva essere successo mentre lei procedeva verso il fondo del corridoio. Le immaginava spalancarsi silenziosamente, una ad una, al suo passaggio. Una specie di saluto. Una minaccia.
     Aveva ragione. Le anime che accompagnavano l’Uomo Grigio dovevano essersi rintanate in quelle camere. L’avevano fiutata e adesso si trovavano tra lei e l’uscita. Acquattate in quel buio improvvisato.
     - Non ho paura – gridò al vuoto. Ma il suono della sua voce sì che le mise terrore. – Non ho paura di voi. Siete solo… solo sogni…
     Nessuno le rispose. Ma avvertiva la loro rabbia. La loro disapprovazione.
     - Questa è casa mia! Se volete esserne ospiti dovete farvi vedere… Dovete chiedermelo… Dovete pregare per la mia ospitalità!
     L’ultima porta, sulla sua sinistra, quella più vicina al pianerottolo illuminato si mosse appena. Neanche un cigolio. Maria sapeva fare bene il suo lavoro. Olio in tutte le giunture. Ma forse s’era mossa per una corrente d’aria. Adele la fissò. Si aspettò che qualcuno uscisse e le venisse incontro. Non accadde. Non succedeva nulla.
     - Io vi ho avvertito! – gridò ancora al vuoto. Le venne in mente lo show di David Townsend. Anche lui, scandagliando vecchie case o ex ospedali psichiatrici gridava al buio: Ehi, io sono qua. Se vuoi farti sentire. Se vuoi parlarmi. Io sono qua. Non sono un tuo nemico. Voglio solo aiutarti.
     Era raro che qualcuno gli rispondesse. E quando capitava si trattava di gorgoglii incomprensibili o sussurri che potevano essere stati causati da qualunque cosa. Ma David era forte, e ogni volta esultava: Accidenti, che risultato formidabile. Ho la pelle d’oca a sentire queste parole. Voci dall’altra parte.
     Adele, per quanto si sforzasse di ascoltare l’inascoltabile non riusciva ma a sentire  nulla. E non aveva mai avuto la pelle d’oca.
     Forse David Townsend avrebbe dovuto venire a casa sua.
     - Andate al diavolo! – esclamò e attraversò il corridoio, rapida, senza fermarsi e senza guardarsi indietro.
     Le porte, una a una, al suo passaggio si chiusero con un fragore che la fece sussultare a ogni colpo. Ma non si fermò. Probabilmente il suo passaggio aveva smosso l’aria facendole serrare.
     (Non dire cazzate. Non dire cazzate)
     Quando arrivò sul pianerottolo si fermò, un leggero ansimare non dovuto alla paura ma all’ansia di sottrarsi a quel gioco stancante.
     Casa sua. Quella era casa sua. I Sognanti erano sopportabili, con il loro silenzio e la loro totale disattenzione. E nonostante ciò lei li aveva rinchiusi dietro la magica porta di quercia. Figurarsi se avrebbe sopportato altri fantasmi.
     Si voltò, con un mezzo sorriso di soddisfazione.
Non mi fate paura!, avrebbe voluto gridare.
     L’Uomo Grigio era al centro del corridoio. La fissava con sguardo colmo di odio. Il nero dei suoi occhi era così denso che poteva essere stato animato solo da una fusione di rabbia e cattiveria. E alle sue spalle, dalle porte adesso di nuovo aperte, esondava la sua corte di mostruosità. Proprio come una marea di anime in pena. Morti cattivi. Morti che si alimentavano allo spirito dell’uomo alto e nello stesso tempo sostenevano la sua furia trattenuta. Adele comprese che nessun appello all’ospitalità avrebbe potuto arginare il furore che trapelava da quegli sguardi ciechi. L’Uomo Grigio e i suoi spettri erano là per una ragione che lei non comprendeva ma che non contemplava sicuramente compassione o umanità.


13

Non era mai stata prima in un ufficio di polizia. L’unica idea che ne aveva era tratta dai telefilm e dalle fiction che seguiva in TV. Immaginava un caos controllato. Uomini e donne indaffarati. Delinquenti ammanettati che venivano trascinati per i corridoi sotto gli sguardi un po’ allibiti e un po’ smarriti dei visitatori. Pensava di dover sedersi su una sedia accanto a qualche pregiudicato o a un paio di prostitute ancora in veste da lavoro e di dover spiegare di essere lì soltanto per una denuncia. Una formalità, avrebbe spiegato.
Il commissariato di zona non era come s’aspettava.
     Intanto si sviluppava per tre piani di una palazzina antica con controsoffitti a cassettoni e pavimenti in marmo. Nonostante l’usura del tempo e l’incuria appariva sempre magnifico. Non c’era confusione all’interno. I poliziotti (ma lo erano tutti? Ne vedeva molti in borghese) sembravano rispettare l’ambiente in cui lavoravano. Si muovevano tra le varie stanze senza far rumore. Rapidi ma silenziosi. Alcuni portavano documenti e si riconoscevano solo perché, a volte, si vedeva spuntare il calcio di una pistola da una cintola. Se non fosse stato per quel particolare avrebbe potuto essere l’ufficio di un’agenzia di assicurazioni. Inoltre non c’erano sedie spigolose appoggiate alle pareti su cui gli arrestati della notte aspettassero, tremando, il proprio giusto destino, ma alcune comode poltroncine in velluto blu, disposte a semicerchio in un’area piccola ma confortevole destinata all’attesa. Su una di quelle poltrone la fecero accomodare, avvertendola che sarebbe stata chiamata in pochi minuti. Adele si sedette con la massima compunzione. E attese. Come da disposizioni.
     Il pomeriggio del giorno prima era passata da casa quella che pensava chiamassero volante di zona. Una ragazza grassa costretta in una risicata divisa blu l’aveva semplicemente informata che doveva recarsi al distretto per firmare alcuni documenti. Adele sapeva di cosa si trattava e da quel momento aveva iniziato una lenta fibrillazione. Non si sentiva tesa per il contenuto della denuncia presentata nei suoi confronti (nessuno l’avrebbe mai condannata perché in casa sua si aggiravano fantasmi molesti) ma perché temeva di dover incontrare l’agente Serra. Sentiva ancora il calore del suo seme tra le gambe ma soprattutto ne rammentava lo sguardo mentre l’Uomo Grigio lo possedeva.
E poi c’era la ferita più grave quella che continuava a suppurare.    In questa casa vive una strega! Qui è la dimora del diavolo! Adele temeva che le visite delle due testimoni di Geova e dei poliziotti avesse alla fine fatto trapelare il segreto che era riuscita a mantenere per tanti anni. E se nel quartiere si fosse diffusa la notizia che tra le mura della casa scura si aggiravano strane presenze e che la sua inquilina vi coabitasse tranquillamente, si sarebbe vergognata a tal punto da non farsi mai più vedere da nessuno. In qualche modo, anzi, sentiva che quello era il suo vero destino. La donna solitaria e un po’ stramba che tutti avrebbero evitato. La leggenda si sarebbe diffusa con una rapidità incredibile. Sarebbe diventata famosa quanto la Fornarina e sotto le sue finestre, come sotto il balcone della presunta amante di Raffaello, si sarebbero fermati curiosi e passanti a indicare le persiane chiuse, a commentare e a sperare di vedere qualcosa di bizzarro e spaventoso. Magari il volto affilato dell’Uomo Grigio.
     La mattina presto, così, accantonata la prospettiva di compiere la sua consueta passeggiata per il quartiere, lavata e vestita (sotto la doccia aveva trascorso solo un po’ più del tempo che solitamente si concedeva, strofinando e strofinando fino a vedere trasparire il rossore brillante sulla sua pelle) s’era diretta con risolutezza verso il distretto di polizia. Nel corso del tragitto il suo cuore aveva battuto con particolare violenza nel petto e quando era arrivata all’indirizzo che la poliziotta le aveva dato aveva iniziato a guardarsi intorno con ansia. Dell’agente Serra non aveva trovato traccia. E mentre il battito in seno s’era un po’ placato aveva avvertito come il sapore stantio della delusione. Forse una parte di sé avrebbe voluto incontrarlo di nuovo, quell’uomo. In fondo, finché non era apparso lo spettro che incombeva sul loro amplesso, l’incontro con lui non l’era dispiaciuto affatto.
     Il commissariato intanto si animava. Non era come alla televisione, in effetti, ma ecco che adesso entravano alcuni uomini in divisa che spingevano un ragazzo con le manette ai polsi. Teneva le mani legate dietro la schiena e aveva un’espressione di disarmata sofferenza sul volto. Nel tragitto, dall’entrata alla porta della stanza in cui lo portarono e lo fecero scomparire, alzò gli occhi e guardò lei. Aveva iridi cerulee, quasi più chiare delle sue, ma non le mandò messaggi di disperazione. Piuttosto sembrò sfidarla, sorridendole persino.  Fu uno sguardo osceno che Adele avvertì fino dentro lo stomaco. Le fece percepire, nello spazio di un attimo, quanto la sua vita fosse lontana da quello che in realtà accadeva nel resto del mondo.
     Quando il prigioniero fu inghiottito dal suo oscuro futuro, Adele si accorse che non era più sola. Una donna sedeva su una delle poltrone accanto alla sua. Non riusciva a capire se fosse giovane o anziana. Era rattrappita, china in avanti con il volto coperto dalle sue mani. Piangeva silenziosamente dietro una lunga cascata di capelli biondi. Due ginocchia magre oltre l’orlo di una gonna da poco. E braccia bianche e lisce. Avrebbe potuto avere sedici come cinquant’anni.
     In uno sforzo per lei enorme, Adele allungò appena una mano. Avrebbe voluto consolarla (immaginava fosse la vittima di un reato o forse la figlia o la moglie di qualcuno appena arrestato), chiederle cosa le fosse accaduto. Qualcuno la interruppe: - Signora Halbritter?
     Ritrasse la mano. L’ispettore Carboni era in piedi, davanti a lei, e le sorrideva, le sembrò un po’ forzatamente. La donna comunque non s’era accorta del suo gesto.
     - Vuole seguirmi, per cortesia?
     Adele si alzò. Lo seguì. Ma non resisteva alla tentazione di chiedere. – Cos’ha fatto quella donna?
     Carboni, che la stava precedendo, si voltò verso di lei.
     - Quale donna?
     Adele gliela indicò. La bionda sconosciuta singhiozzava senza suoni, la faccia sempre nascosta tra le mani. Dita lunghe e unghie corte. Forse un po’ mangiate.
     Carboni guardò verso le poltroncine. Poi tornò a fissare Adele. Aveva un’espressione indecifrabile.
     - Lei lo sa che non c’è nessuna donna là, vero? – Glielo domandò scandendo bene le parole come per sincerarsi che lei comprendesse bene.
     In quel momento la donna che Carboni non riusciva a vedere sollevò il viso e la guardò. Non stava piangendo. Al contrario. Rideva. Con denti marci e le labbra tirate in una smorfia volutamente sguaiata. Rideva di lei, naturalmente. E della sua paura.
     Perché adesso – Adele se ne rendeva all’improvviso conto – la paura era l’unica sensazione che provava e che predominava inaspettatamente su tutte le altre. Si dipingeva sui suoi lineamenti, nei suoi occhi, che la Sognante e il poliziotto studiavano. Il fantasma per sincerarsi che la sua presenza l’avesse terrorizzata. L’uomo per capire quanto fosse pazza questa donna di mezza età che aveva invitato nel suo ufficio.
     Adele non aggiunse altro. Ma era ipnotizzata da quell’apparizione. Che a un tratto si alzò, smettendo di ridere, le mandò un cenno di saluto col capo, e si voltò, andandosene via. Uscì dalla porta da cui proprio in quel momento entrava una coppia di agenti in divisa. Nessuno di loro la vide. Naturalmente. Nessuno di quelli presenti nell’edificio avrebbe potuto. Quello era uno degli incubi personali di Adele Halbritter. Per l’occasione manifestatosi lontano da casa. In trasferta avrebbe potuto dire. E questo era l’evento eccezionale. Il vero spettacolo. Che la terrorizzava a morte.
     Carboni la studiava ancora. Indeciso su cosa fare.
     - Devo essermi sbagliata, - disse alla fine Adele, sapendo che era perfettamente inutile avanzare qualche spiegazione. – Oppure è già andata via.
     - Sì. Deve essere così.
     Lo guardò negli occhi, adesso lucida. Riacquistava lentamente la padronanza di sé. – Dove dobbiamo andare ispettore?
     Carboni le fece cenno di seguirlo e la condusse nel suo ufficio.
     Era una stanzetta ingombra di un paio di scrivanie, di uno scaffale in cui giacevano forse da sempre fascicoli e faldoni impolverati e di una finestra da cui entrava la luce livida e il rumore di Trastevere. Alle pareti un calendario della Polizia, foto in bianco e nero di brutte facce, alcuni quadretti che dovevano essere encomi e lodi ricevute sul campo, un poster scolorito con Mel Gibson (aveva visto anche lei quel film) e uno con Gian Maria Volontè (no, quel film non era mai riuscito a vederlo) e alcuni ritagli di giornale incorniciati. Fu subito attratta da questi e rimase in piedi a guardarli.
     Carboni si sedette dietro una delle due scrivanie, frugò fra le carte che ne ricoprivano il ripiano ed evidentemente trovò quello che cercava. Aprì un fascicolo e le parlò, senza sollevare lo sguardo dal carteggio. Aveva un tono imbarazzato, incerto: - Per quello che è accaduto l’altra mattina… hmm, signora Halbritter?
     Anche Adele non riusciva a distogliere lo sguardo da uno degli articoli di quotidiano che qualcuno aveva incorniciato e appeso al muro. Era un ritaglio lievemente ingiallito. Se ne intravedeva la data, in alto a sinistra. 14 gennaio 1999. Un vecchio resoconto di cronaca giudiziaria. Due foto campeggiavano al centro.
     - Signora Halbritter, mi ascolta? Le parlavo di quello… spiacevole incidente dell’altro giorno… col mio collega…
     - Sì? – Le foto avevano catturato la sua attenzione. Una in particolare.
     - Vuole sedersi? Così ne parliamo?
     Ma Adele non lo ascoltava più. La presenza della donna che rideva, adesso, acquisiva un significato più inquietante che mai. Sembrava proprio che i morti non ne volessero sapere di restare nelle loro tombe. E lei, a quanto pareva, era al centro esatto della strada che li conduceva dal loro mondo al nostro.
     Una delle foto si riferiva all’arresto di un terribile serial killer (questa la parola che usavano nell’articolo, faceva più sensazione) che aveva insanguinato le strade di Roma all’epoca. Lo chiamavano il Macellaio solo perché alla fine avevano scoperto che aveva un negozio di carne al Gianicolo. Due poliziotti, nello scatto in bianco e nero, lo stavano conducendo in carcere. Uno dei due agenti, pur nell’incertezza sgranata della foto, le sembrava un Carboni più giovane.
     La seconda foto era il ritratto in primo piano del Macellaio. Un volto affilato. Calvo. Occhi neri e piccoli. Senza espressione umana. Una bocca come uno dei suoi tagli scelti di carne. Lo avrebbe riconosciuto anche in una foto peggiore di quella. Non poteva sbagliarsi.
     L’Uomo Grigio.
    

14

Un cielo minaccioso di pioggia e ecco che Roma s’imbronciava di nuovo. Ombre nerissime si allungavano sulle strade più strette e un colore di tempesta si stendeva sul volto degli edifici. La città sapeva essere solare. Ma bastava poco perché si tramutasse in una cattedrale di cupo splendore.
     Adele lo sapeva. E amava quell’aspetto della città. A volte lo reclamava. Ma adesso tutto le sembrava troppo appropriato. E terribile.
Era ferma davanti alla sua casa, senza la forza di entrarvi. Guardava le finestre, scure come occhiaie, e la facciata che sotto quella strana luce appariva di uno spento color malva. Sullo sfondo, gli alberi del giardino di Villa Farnesina si agitavano nel vento ponentino come scheletriche prefiche che si strappassero i capelli per la disperazione.
Adele non aveva mai avuto paura dei Sognanti. A parte una leggera inquietudine che l’aveva accompagnata tutta la vita e che, alla fine, era diventata parte di sé (e che forse era stata la causa della sua solitudine) non aveva mai temuto di chiudere gli occhi fra le pareti della sua camera da letto, non s’era mai guardata alle spalle salendo o scendendo le scale, non si era mai soffermata a sondare il buio che allignava in quelle stanze. Non c’era mai stato posto per questi sentimenti.
Adesso tutto pareva cambiato. E il cuore le accelerava in petto al solo pensiero di aprire la porta d’ingresso ed entrare.
C’era qualcuno, ora, in casa sua. Un non invitato. Uno spirito cattivo.
     Si chiamava, da vivo, Marco Manfredi. Glielo aveva raccontato Carboni quando Adele aveva insistito per conoscere la vicenda di quel ritaglio di giornale appeso al muro come un triste trofeo. Chissà perché l’ispettore era stato così loquace. Forse per allontanare l’imbarazzo di doverle fare domande su quanto era accaduto tra lei e l’agente Serra. Forse perché aveva voglia di raccontarla davvero quella storia, anche se non  sembrava possibile che qualcuno avesse il desiderio di farlo.
Marco Manfredi era stato una bestia intelligente e feroce. Ci avevano messo due anni per individuarlo e fermarlo. Una faticaccia immane. Così s’era espresso il poliziotto e Adele aveva notato una specie di piega della sua espressione. Un misto di sollievo e terrore. Come se Marco Manfredi gli facesse ancora paura.
     Possibile che lei non ricordasse? Era stato, per un certo tempo, l’assassino più famoso d’Italia. La storia dei suoi omicidi aveva impegnato tutti i media per mesi e mesi. Adele aveva spiegato all’ispettore che lei non guardava mai i notiziari alla TV e non leggeva giornali. Viveva la sua vita. Il resto del mondo vivesse la sua.  Era parso comunque strano al poliziotto che lei non ne avesse mai sentito parlare.
     Manfredi aveva ucciso sette bambini. Solo di tre avevano ritrovato i cadaveri. Qualcuno aveva pensato che gli altri li avesse mangiati. O che addirittura li avessi dati in pasto agli ignari clienti della sua macelleria. Era un’ipotesi orribile e senza prove ma dipendeva dal fatto che dai corpi ritrovati (povere ossa e brandelli mummificati di carne) mancassero interi pezzi. E che lui facesse quel mestiere. Nelle settimane successive, decine di persone s’erano presentate alla polizia nella convinzione orribile di aver ingurgitato carne umana. Qualcuno aveva dato fuori di matto. E c’erano stati due casi di suicidio tra i clienti della famosa “Bottega della Carne” di Marco Manfredi.
 Lui, il mostro, non aveva mai confermato né smentito. A dire il vero, Manfredi non aveva mai aperto bocca, dopo il suo arresto. E mentre lo raccontava, la pelle del volto di Carboni sembrava impallidire sempre di più.
     Quando ancora non si conosceva il suo nome e il suo aspetto, era stato chiamato in vari modi. Uno di questi era “Il Divoratore di Bambini”. Lo aveva sparato in prima pagina Il Messaggero, in testa a un articolo che spiegava ai genitori di Roma cosa fare per evitare che i propri figli venissero “divorati”. Dei piccoli scomparsi non era mai stata, infatti, trovata traccia. I primi due erano spariti a distanza di una settimana uno dall’altro. Avevano entrambi sette anni e vivevano abbastanza vicini, tra Trastevere e Viale Marconi. Nessun rapporto di amicizia o di conoscenza tra di loro. Ma gli investigatori avevano subito capito che c’era un collegamento tra i due casi e non si aspettavano nulla di buono. Non sembravano rapimenti finalizzati all’estorsione. Qualcuno faceva sparire i bambini per altri motivi. E aveva appena iniziato.
     Non passò molto che altri piccoli, tutti maschi, tutti tra i sette e i nove anni, si unirono alla terribile lista. Scomparivano dai cortili degli asili. Nel breve tratto che da casa portava al lattaio o al giornalaio. Dagli androni dei palazzi in cui si fermavano a giocare con gli amici. Non c’erano mai tracce, nessuno vedeva mai niente di sospetto, nessuno se ne accorgeva prima che fosse troppo tardi. Sembrava che sparissero letteralmente. Puff. Prima c’erano e poi non c’erano più. Non sembrava ci fosse movente (se non l’ipotesi di un sadico pedofilo), non c’erano corrispondenze tra gli scomparsi se non che abitavano tutti nel triangolo di Roma Sud. Una porzione di territorio in realtà enorme.
     Poi iniziarono le telefonate alle abitazioni dei piccoli scomparsi. Mute. Caratterizzate da un ronzio basso e diffuso. Continue. Nel tempo. All’inizio qualcuno fra quelli che rispondevano attaccava, convinto di trovarsi davanti a qualche maniaco che volesse insinuarsi in quella agghiacciante storia. Erano spesso poliziotti o parenti e amici dei genitori a rispondere. Le madri e i padri degli scomparsi annegavano in un dolore che impediva loro qualunque reazione ed erano, per lo più, protetti da un cordone di difesa formata dai loro cari oltre che controllati dagli inquirenti. Dopo qualche secondo, lo sconosciuto interrompeva la comunicazione. Ma quando quel gesto si diffuse, e la notizia si propagò, i genitori dei bambini pretesero di prendere il telefono in mano. E allora le cose cambiarono. Dall’altra parte c’era sempre il silenzio. Ma la telefonata non veniva interrotta se non dopo qualche minuto. Qualcuno  all’altro capo del filo restava muto, in ascolto. Un leggero respiro. I genitori allora iniziavano a piangere, a disperarsi, a implorare. Urlavano. Invocavano la pietà del rapitore. Pregavano perché i loro figli tornassero a casa. Le loro grida strappavano il cuore a chi le ascoltava. E alla fine Carboni e gli altri che lavoravano sul caso capirono i motivi di quelle telefonate.
     - Quel mostro bastardo godeva della sofferenza dei genitori. – L’ispettore aveva gli occhi ancora lucidi mentre le raccontava la sua favola nera. – Telefonava proprio per questo. Per dissetarsi al pianto disperato di una madre che voleva riabbracciare il proprio bambino e che lo pregava, e lo pregava, e lo pregava. Questo voleva, l’assassino. Si beava di quei lamenti e di quei pianti strazianti. La morte della vittima era, come scoprimmo poi, un fatto secondario. Una specie di effetto collaterale. Non evitabile perché probabilmente se li avesse lasciati andare loro l’avrebbero riconosciuto. E non era uno stupido, quello psicopatico figlio di puttana. Oh, non lo era davvero.
     Scoprirono che le chiamate – ma era prevedibile – provenivano sempre da cabine telefoniche e mai dalle stesse. Misero sotto intercettazione tutti i telefoni pubblici della città. Cercarono di tendere trappole. Ma senza risultato.
     Poi la polizia fece una scoperta. Fu per merito dei colleghi dell’antiterrorismo che avevano sperimentato un nuovo metodo di analisi telefonica indagando sugli ultimi attentati delle Brigate Rosse. Si accorsero che le schede telefoniche prepagate, quelle piccole tesserine della Telecom, apparentemente anonime, niente più che gettoni telefonici elettronici, in realtà conservavano una sorta di memoria delle chiamate effettuate. Era una cosa che, all’epoca, non sapevano neanche i tecnici dei gestori telefonici. In pratica le tessere magnetiche, che potevano essere acquistate in qualunque rivendita, senza intestazione né documento d’identità, mantenevano in memoria il tabulato di tutte le telefonate compiute e di tutte le cabine in cui erano state usate. I poliziotti iniziarono una ricerca e un’analisi furiosa dei tabulati di tutte le cabine in cui il maniaco aveva telefonato. Speravano che il mostro,  non conoscendo neanche lui questa peculiarità delle schede telefoniche, potesse aver fatto l’errore di chiamare con la medesima tessera non solo l’abitazione di una delle vittime ma anche, per esempio, un proprio familiare. O un proprio amico. Insomma speravano che il Divoratore avesse commesso un errore. Alcuni terroristi erano stati arrestati con quel metodo.
     - Fummo fortunati, anche se la parola fortuna in questa storia di merda non dovrebbe entrarci. – E Carboni si era passato una mano sugli occhi. Adele aveva immaginato che quelli fossero gli stessi occhi che avevano visto i corpi delle vittime ritrovate e i genitori a cui era stata data quella notizia. Troppo dolore per due occhi così.
     Alla fine lo presero. Appena in tempo. Era appena scomparso un ottavo bambino. Un bimbo più piccolo degli altri. 5 anni e capelli biondi e riccioli che aveva disubbidito alla mamma e mentre lei stava stendendo i panni in terrazzo aveva aperto la porta di casa ed era sceso in strada. C’era un gattino che miagolava e lui voleva vederlo e magari, con un pizzico di coraggio, portarlo a casa.
     Il Divoratore passava di lì per caso, sul furgone che utilizzava per caricare la carne al macello e portarla alla sua bottega. Aveva impiegato due minuti per accostare, guadagnarsi la fiducia del bambino, e poi strattonarlo con tanta forza da lussargli una spalla per caricarlo in macchina. S’era poi precipitato verso un casolare che teneva nella campagna tra Roma e Ardea, mentre il bambino urlava di dolore e di paura.
     Ma la polizia era già arrivata a qualche nome, scavando nei tabulati di quelle cabine telefoniche. E il suo spiccava sugli altri per alcuni vecchi precedenti. Roba da poco, errori di gioventù perdonati facilmente da qualche giudice in vena di comprensione, ma abbastanza da solleticare la curiosità degli sbirri.
     Carboni in persona e la sua squadra lo aveva intercettato mentre fermava il furgone davanti all’edificio isolato, nella sonnolenta campagna laziale. Non aveva opposto alcuna resistenza e aveva offerto il polso alle manette che i poliziotti gli esibirono. Quando avevano aperto le porte posteriori del furgone con la scritta sul fianco in rosso acceso “TAGLI DI PRIMA SCELTA – MACELLERIA MANFREDI” erano stati investiti dall’odore aspro della carne cruda, del sangue essiccato e degli escrementi del bambino che aveva appena rapito.
     Il racconto di Carboni, in quel punto, s’era come sfilacciato. Era stato come se ricordare quei fatti lo avessero davvero stancato. Forse, aveva pensato Adele, era tanto che non ne parlava. O addirittura era la prima volta che s’era lasciato andare a quel ricordare. Anche se l’articolo di giornale piantato là, sul muro di fronte alla sua scrivania, era un memorandum formidabile cui certamente il poliziotto non si poteva sottrarre.
     Eppure, era bastato un accenno di curiosità da parte di lei, che l’uomo l’aveva accontentata con una dovizia di particolari in effetti non richiesti.
     L’ultima domanda che Adele aveva avuto il coraggio di fargli riguardava le motivazioni di quell’assassino.  Davvero era stato tutto finalizzato al dolore dei parenti delle vittime? Davvero si poteva essere così crudeli da gioire alla sofferenza infinita di una madre o di un padre che perdono il proprio figlio?
     Carboni s’era stretto nelle spalle, riconquistando un certo controllo di sé. Non c’era più quella luce liquida nei suoi occhi. Piuttosto una sorta di ipotermia dei sentimenti. Uno scudo.
     Nessuno aveva mai avuto la possibilità di interrogare Marco Manfredi dopo il suo arresto. Il Macellaio s’era ucciso il secondo giorno d’isolamento. Non si capì mai come avesse fatto a procurarsi la lametta da barba che aveva spezzato e poi ingoiato, nella sua prima notte in carcere. Era avvenuto nel vecchio penitenziario  di Regina Coeli, oggi chiuso. Propri lì. In Via della Lungara. Duecento metri appena dalla casa di Adele.


15

Ecco perché entrare di nuovo in casa le fu difficile. E la fragile speranza di sfuggire a quell’orrore fu subito vana.
     L’Uomo Grigio l’aspettava, sulla scala che portava ai piani superiori. Immobile, la fissava. E adesso l’evanescenza che aveva caratterizzato la sua apparizione nei primi giorni era scomparsa. La figura era nitida, reale quanto quella di uno qualsiasi dei suoi ormai rimpianti Sognanti.
     Lo spettro del Divoratore di Bambini la guardava. E qualcos’altro era cambiato in lui.
     Sorrideva.

     Sembrava felice.

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